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Sarebbe riuscito a prendere la bisaccia e a fuggire senza essere notato? Anche se non avessero avuto archi e un po’ di abilità nell’usarli, gli sarebbe seccato sprecare incantesimi per una manciata di disperati laggiù, nel cuore dello Skuldaskar. Nel suo viaggio si era imbattuto in orsi, in grandi gatti delle foreste e in ragni del sonno, e aveva udito storie di bestie ancor più spaventose che cacciavano l’uomo lungo quella strada. Aveva visto le ossa rosicchiate e i carri marci, rovesciati, di una carovana che tempo prima aveva incontrato la morte e non desiderava diventare un altro monito raccapricciante ai bordi della via.

Mentre rifletteva sul da farsi un altro brigante girò attorno all’albero, frettolosamente, con la testa bassa, e si scontrò con il principe.

Caddero sul tappeto di foglie emettendo contemporaneamente un grido di sorpresa, ma El aveva il coltello a portata di mano, e lo usò senza indugi.

L’arma era affilata, con una sola mossa il giovane squarciò la fronte dell’uomo, poi scattò in piedi e corse via, assicurandosi di calpestare l’arco che il furfante aveva lasciato cadere, che scricchiolò sotto i suoi stivali. El prese a correre veloce verso la strada, mentre urla di sorpresa si levavano alle sue spalle.

L’uomo che aveva ferito sarebbe rimasto accecato dal sangue finché qualcuno non l’avesse aiutato, il che significava un brigante in meno alle calcagna di Elminster di Athalantar. Le Rapide di Berduskan erano ancora molto lontane, specialmente ora che doveva proseguire a piedi, e tornare a Elturel avrebbe richiesto un viaggio ancor più lungo. Qualsiasi direzione avesse scelto, non gli piaceva l’idea di essere inseguito giorno e notte da una banda di tagliagole.

Dopo aver sceso di corsa il pendio, raggiunse il cavallo e usò il pugnale per liberare la bisaccia e tagliare il laccio del fodero della spada. Afferrando entrambi si mise a correre veloce lungo la strada, per cercare di guadagnare un po’ di distanza prima di tentare qualche altro trucco.

Una freccia gli sibilò sopra la spalla, al che El deviò bruscamente infilandosi nella foresta dell’altro lato della strada. Complimenti per la tattica brillante, pensò fra sé.

Era necessario fermarsi e combattere. A meno che…

Freneticamente lasciò cadere la sacca e sfoderò la spada, i pugnali da entrambi gli stivali, e il coltello che teneva legato sulla schiena, l’impugnatura nascosta sotto i capelli a livello della nuca. Con un gran fragore, ammucchiò il tutto sul muschio e, a canto già iniziato, vi aggiunse anche la forchetta da cucina annerita dal fuoco e il coltello dalla lama larga, che usava per scuoiare.

Mentre i furfanti balzavano e correvano tra gli alberi, avvicinandosi sempre più, Elminster continuò imperterrito l’incantesimo: afferrò le armi una ad una e si incise la pelle in modo che alcune gocce del suo sangue cadessero sull’acciaio; toccò quindi ogni lama col groviglio di piume e i filamenti di ragnatela che aveva estratto dalla bandoliera, ringraziando Mystra che gli aveva consigliato di contrassegnare ogni tasca così da riconoscerne immediatamente il contenuto, e infine batté le mani.

Il sortilegio era terminato. El raccolse la bisaccia per farne uno scudo contro eventuali frecce, e si acquattò, mentre le sette armi che aveva incantato iniziarono a sollevarsi nell’aria, stridendo l’una contro l’altra, come stessero annusando la preda, dopodiché partirono fulminee, dirette nella foresta.

Dopo pochi istanti un brigante urlò: Elminster lo vide girare su se stesso, le mani su un occhio, e rotolare lungo il pendio fin sulla strada. Un secondo uomo imprecò e si mise ad agitare la spada forsennatamente; si udì il clangore dell’acciaio, quindi il ladro barcollò e cadde, mentre fiotti di sangue gli fuoriuscivano dalla gola squarciata.

Un altro individuo grugnì e si portò le mani al fianco, ne estrasse la forchetta e la gettò via imprecando. Poi si diede a una fuga frenetica, e fu sorpassato da alcuni compagni che cercavano disperatamente di non farsi raggiungere dalle lame assetate di sangue.

Quando l’acciaio veniva a contatto col sangue, il suo incantesimo svaniva. Elminster lasciò cadere la bisaccia e avanzò cautamente per recuperare i pugnali e la forchetta dagli uomini appena caduti. Ora sarebbe stato facile fuggire inosservato, ma non avrebbe mai saputo quanti sopravvissuti gli avrebbero dato la caccia… e non avrebbe più riavuto le sue armi.

I due che aveva visto cadere erano morti, e un’evidente traccia di sangue gli indicò che un terzo ladro non avrebbe corso a lungo prima che gli dei lo chiamassero. Un quarto brigante riuscì a raggiungere il cavallo di Elminster prima che la spada del giovane principe gli trafiggesse la schiena, poi cadde a faccia all’ingiù e rimase immobile.

El si imbatté in altri due cadaveri e recuperò tutte le armi, tranne il pugnale preso in prestito e uno dei suoi coltelli da cintola, dopodiché abbandonò quel macabro compito e riprese il viaggio. Entrambi i furfanti morti avevano armi contrassegnate grossolanamente col simbolo del serpente. Il giovane si grattò la mandibola, irritata da un principio di barba ispida, poi si strinse nelle spalle. Doveva proseguire; che importanza aveva sapere quale banda reclamasse la proprietà di quei boschi? Non trascurò di raccogliere gli archi che trovò, e li infilò all’interno di un tronco cavo a poca distanza da lì, spaventando una giovane lepre che, uscita dalla parte opposta, fuggì saltellando fra gli alberi.

El guardò l’ammasso di lame insanguinate tra le sue mani e scosse il capo, dispiaciuto. Non gli piaceva uccidere, in nessuna circostanza. Pulì le armi sul primo cuscino di muschio che trovò e proseguì il viaggio in direzione sudest, attraverso il bosco che si faceva via via più scuro.

Il cielo divenne presto grigio, e cominciò a soffiare una brezza gelida. Nonostante l’aria odorasse di pioggia, non cadde nemmeno una goccia d’acqua, ed Elminster continuò il faticoso cammino sotto il peso sempre maggiore della bisaccia.

Con gran sollievo giunse, prima del tramonto, a un piccolo avvallamento; lì vide uno sbuffo di fumo salire da un camino, una staccionata e, dietro ad essa, una serie di campi.

Su un cartello affisso a un palo di quello che sembrava un recinto per cavalli, nonostante in quel momento non fosse che una distesa di fango ed erba calpestata, si leggeva: «Benvenuti ai Corno dell’Araldo». Sotto la scritta vi era un disegno rozzo, raffigurante uno strumento d’argento di forma quasi circolare. Elminster sorrise, sollevato, e iniziò a camminare lungo lo steccato superò numerosi edifici di pietra dai quali fuoriusciva odore di luppolo, ed entrò in un cancello sovrastato da una copia mal forgiata in ferro del corno dell’araldo.

A quanto pareva, avrebbe dovuto trascorre la notte in quel luogo. El attraversò un campo fangoso e giunse a una porta, sulla quale un ragazzo dall’aria annoiata mondava ravanelli e peperoni, che gettava via via in un barile pieno d’acqua, e nel contempo attendeva i clienti.

Il ragazzo scrutò Elminster con aria interessata, ma non fece alcuna mossa per suonare il gong che aveva accanto al gomito, limitandosi a salutare il giovane dal naso adunco con un cenno inespressivo del capo. El contraccambiò ed entrò nella locanda.

Il locale odorava di cedro; da qualche parte davanti a lui, sulla sinistra, vi era un fuoco e si udivano delle voci. Il principe si guardò intorno, la bisaccia in spalla, e gli parve di trovarsi nel mezzo di un’altra foresta: un intrico di tronchi d’albero, stanze buie e pavimenti di pietra cosparsi di segatura, sui quali zampettavano rapidi gli scarafaggi. Molte delle assi attorno a lui recavano le cicatrici di vecchi incendi, spenti tempestivamente, molto tempo addietro.

Dall’odore, in quel luogo fabbricavano la birra. Ma non i pochi litri che tutti solitamente preparavano: lì la produzione era sufficiente a riempire la montagnola di barili che El vedeva dalla finestra, le cui persiane erano state socchiuse per lasciar entrare un po’ di luce e aria. Una faccia lo fissava dall’esterno, le sopracciglia folte corrugate: «Sei solo? A piedi? Vuoi un pasto e un letto?»