D’altra parte, la creatura spettrale era in grado solo di spaventare, o poco più, gli elfi vivi, e uno di essi si trovava abbastanza vicino a Elminster da potergli sferrare un incantesimo mortale, malgrado la fessura tra loro fosse troppo piccola per lasciarlo passare.
El allungò cautamente un braccio e afferrò silenziosamente il libro degli incantesimi. Non avrebbe dovuto far altro che trascinare il groviglio di corda attaccato ad esso, mentre strisciava il più lontano possibile dalla fessura.
Nonostante sentisse il corpo dolorante, come fosse stato smembrato e poi ricomposto, pezzo per pezzo, Mystra era venuta in suo aiuto. L’aveva trascinato attraverso un’infinità di ricordi alastrarrani fino a ciò che la sua mente da mago aveva immagazzinato chiaramente, nelle profondità della memoria: gli incantesimi contenuti nella gemma del sapere.
Ve n’era uno che non osava utilizzare: il suo prezzo era troppo alto. Metterlo in atto avrebbe significato cancellare dalla sua mente tre degli incantesimi più potenti e dar fondo alle energie dello scettro, ma ora tale sortilegio era necessario.
Con un sospiro Elminster fece ciò che doveva, rabbrividendo silenziosamente quando un nugolo di scintille sembrò inondargli la mente, portando via con sé alcuni incantesimi. Grazie al cielo non dovette destare nuovamente lo scettro per assorbirne il potere. Quando il nuovo incantesimo splendette luminoso dentro di lui, El cercò la nicchia più profonda del locale, in un angolo lontano della stanza collassata, e v’infilò il prezioso libro. Tirando la fune staccata dal tomo, verificò che l’estremità opposta fosse ancora saldamente ancorata alla vecchia trave del soffitto, poi gettò la matassa giù dalla cascata di pietre nella stanza della torre, e scese il più silenziosamente possibile.
Pietre e sassi rotolarono e rimbalzarono inevitabilmente, ma l’elfo levitante stava sbraitando tanto forte nella sua battaglia col fantasma che nessuno udì l’acciottolio. El raggiunse il fondo, riavvolse la matassa di corda, vi fece un nodo affinché non si rovinasse e la lanciò indietro, il più in alto possibile, sulle rocce franate, nella speranza che nessuno la vedesse.
Senza volare e senza una luce forte ciò era quasi impossibile, pensò. Dopo aver fatto un respiro profondo, iniziò il primo incantesimo: una semplice barriera, come quella usata contro Delmuth. Era tempo di affrontare la banda di Ivran.
L’incantesimo avverti gli elfi che una magia era appena stata sferrata e si udì un urlo violento provenire dalla stanza in cui stavano cercando Elminster. Presto sarebbero sbucati dallo stretto corridoio: era tempo di dar loro il benvenuto.
Il principe di Athalantar si mostrò all’imboccatura del passaggio per il tempo sufficiente ad assicurarsi che l’elfo levitante non stesse tentando di trovare una via attraverso il soffitto, ma vide che stava scendendo rapidamente. Bene. El fece un cenno gentile all’elfo più vicino, e rimase in attesa.
«Mi ha salutato!», esclamò ansioso l’elfo, dopo essersi bruscamente fermato.
Il compagno dietro di lui, Tlannatar Wrathtree, gli diede un colpetto con la parte piatta della spada e ringhiò: «Va’ avanti!»
L’elfo esitò. El gli fece un sorriso tutto denti e accennò un gesto quasi affettuoso.
L’avversario si fermò, e iniziò a indietreggiare. «Mi ha…»
«Non m’importa!», abbaiò Ivran, dalla stanza. «Non m’importa nemmeno se gli stanno crescendo ali trasparenti di sterco di gnomo! Muoviti!»
«Procedi!», aggiunse Tlannatar, spingendolo ancora con la spada, questa volta con la punta.
Il tutt’altro che impavido elfo gridò e s’incamminò frettolosamente. El diede un’ultima occhiata a quel passaggio: sarebbe stato facile sferrare un fulmine proprio in quel momento, ma uno dei cacciatori indossava sicuramente un mantello protettivo che avrebbe respinto tali incantesimi, perciò preferì indietreggiare. Attraversò la stanza della torre verso l’altro corridoio, e rimase in piedi sulla soglia. Nessuno di quei nobili cormanthoniani sembrava avere archi: lasciavano tali armi ai comuni guerrieri, grazie a Mystra. O a Corellon. O a Solonor Thelandira, il dio della caccia. O a qualsiasi altro dio.
Tuttavia, avrebbe dovuto sincronizzare perfettamente le sue mosse; ormai si era esposto, e avrebbe avuto una sola occasione. Con un sorriso truce stampato in volto attese che Tlannatar e l’elfo pauroso alla testa del gruppo uscissero allo scoperto nella stanza della torre e lo vedessero, prima di voltarsi e correre lungo i passaggi comunicanti, verso la stanza diroccata attraverso la quale i cacciatori erano entrati nel castello.
«Se non funziona, Mystra», osservò tranquillamente mentre correva, «a Cormanthor dovrai mandarci qualche altro Eletto. Se vuoi fargli un favore, scegli un elfo, d’accordo?»
Mystra non diede segno di aver udito, ma per allora El aveva raggiunto la stanza desiderata, e si stava dirigendo al cumulo di rocce che si ergeva nel centro. Gli elfi, rapidi come di consueto, gli erano alle calcagna.
El trovò un punto adatto e si voltò per affrontarli, assumendo un’espressione ansiosa e sollevando le mani come se fosse incerto sull’incantesimo da sferrare. I cacciatori giunsero di corsa nella camera, agitando le spade, e si arrestarono di colpo.
«C’è qualche cosa che non va: non sembrava tanto spaventato un attimo fa. Dev’essere un tranello», affermò con aria incerta l’elfo che aveva guidato il gruppo lungo il primo passaggio angusto.
«Silenzio!», ringhiò Ivran Selorn, spingendo da parte il collega. L’elfo pauroso scivolò sulle pietre rischiando di cadere, ma Ivran non vi prestò attenzione. Era il suo momento di gloria; avanzò verso l’uomo senza fretta, quasi danzando sulle punte dei piedi. «Dunque, ratto umano», sibilò, «sei finalmente con le spalle al muro, vero?»
«Tu lo sei», ribatté Elminster con un sorriso. L’elfo piagnucolone sollevò un nuovo grido d’allarme, ma Ivran lo zittì immediatamente e rivolse a El un sorriso senz’allegria.
«Voi barbari pelosi vi credete intelligenti», commentò, gli occhi luminosi, «e lo siete fin troppo. Sfortunatamente, negli stupidi l’intelligenza crea soltanto insolenza. Tu ne hai mostrata parecchia e sei stato tanto sfacciato da pensare di poter uccidere – e cavartela senza pagare – gli eredi di non meno di dieci casate di Cormanthor: undici, se contiamo Alastrarra, del quale portavi la gemma del sapere quando ti sei introdotto nel nostro regno; chi ci assicura che non hai ucciso Iymbryl per ottenerla? Inoltre, chi detiene il titolo di armathor serve Cormanthor diligentemente per tutta la vita e uccide meno nemici di quanti tu ne abbia già assassinati».
Con un’esagerata aria di sorpresa, Selorn guardò i compagni e poi ancora Elminster. «Vedi? Qui ce ne sono molti altri. Che splendida opportunità di allungare il tuo elenco! Perché non attacchi? Hai forse paura?»
Elminster abbozzò un mezzo sorriso. «La violenza non è mai stata propria di Mystra».
«Oh, davvero?», esclamò Ivran, la voce acuta e incredula. «Che cos’era quell’esplosione alla piscina? Un fenomeno naturale, forse?»
Con un sorriso serrato e crudele, ordinò agli altri di circondare Elminster, ed essi ubbidirono silenziosamente, mantenendosi a debita distanza dall’uomo. Poi il leader della banda si voltò verso la sua preda e affermò: «Lascia che ti elenchi i nomi degli eredi che hai ucciso, oh potente armathor: Waelvor, e un sanguinoso raccolto alla piscina: Yeschant, Amarthen, Ibryiil, Gwaelon, Tassarion, Ortauré, Bellas e – ho udito dai maghi – anche Echorn e Auglamyr!»