«Osate frugare nella mia mente? Nella mente di un erede?»
Sylmae scrollò le spalle. «Naturalmente. Agiamo nell’autorità del Coronal».
«Quale autorità?», sibilò il mago facendo un passo indietro, le fiamme sempre intorno alle mani. «Tutto il regno sa che il Coronal è impazzito!»
Il Supremo Mago di Corte si voltò lentamente, una figura esile ma minacciosa nella tunica nera, e affermò grave: «Dopo che il tuo sedere avrà assaggiato le fiamme di cui vai tanto fiero, Selgauth Cathdeiryn, e la tua mente sarà stata esaminata a fondo, sarai condotto dal Coronal sotto scorta. In tal modo sarai libero di fare tale osservazione all’Onorato Signore in persona. Se sei saggio, avrai l’accortezza di farlo con più gentilezza».
Galan Goadulphyn guardò la superficie dello specchio d’acqua un’ultima volta, e sospirò. Se fosse stato meno orgoglioso avrebbe versato qualche lacrima, ma era un guerriero di Cormanthor, non una di quelle femminucce blese e profumate che le casate nobili osavano chiamare eredi. Lui era duro come la roccia, come le radici di un vecchio albero. Avrebbe sopportato senza lamentarsi e si sarebbe risollevato. Un giorno.
La figura riflessa dall’acqua non era per nulla ispiratrice. Il suo volto era una maschera di sangue secco, la linea sottile della mandibola era sfigurata nel punto in cui un brandello di pelle penzolante rendeva il suo mento squadrato come quello di un umano. La punta di un orecchio era scomparsa, e i capelli erano arruffati come le zampe di un ragno morto, le ciocche impastate nelle croste scure che coprivano i solchi provocati dalla caduta dei sassi sulla sua testa.
Galan riabbassò lo sguardo sull’acqua. Increspò le labbra in un sorriso triste e abbozzò un rigido inchino. Poi si voltò e calciò una pietra al centro dello stagno, increspandone la superficie liscia.
Sentendosi molto meglio, controllò spada e pugnale per assicurarsi che fossero pronti nel fodero e si avviò nella foresta. Il suo stomaco ricominciò a brontolare, ricordandogli che per vivere non si possono mangiare monete.
Ci sarebbero voluti due giorni di cammino attraverso il bosco per giungere ad Assamboryl, e un’altra giornata per le Sei Spine. Le ore sembravano più lunghe senza le sciocchezze infinite di Athtar. Non che non si godesse quella relativa quiete, per una volta, ma era tanto irrigidito, e qualsiasi cosa l’avesse colpito alla gamba gli aveva procurato un dolore bruciante e ora lo faceva zoppicare tra il muschio e le foglie morte come un uomo goffo.
Grazie al cielo nei dintorni vivevano pochi elfi, a causa dei mostri alati. In quel preciso istante ve ne era uno che volteggiava fra gli alberi e lo seguiva a debita distanza.
Hmmph. Al momento poteva anche non essere assetato di sangue, ma se l’elfo stava per caso andando incontro ai suoi simili, prima di sera di Galan il Coraggioso non sarebbe rimasto altro che un involucro di pelle.
Che allegro pensiero!
Un carretto da funghi si sollevò da dietro un banco di felci alla sua sinistra. L’elfo arricciò il naso. Era stipato di limecap, i loro gambi color marrone screziato secernevano la linfa bianca che indicava che erano appena stati colti. Lo stomaco gli brontolò per l’ennesima volta e senza pensarci due volte prese una manciata di funghi e se li infilò in bocca.
«Oh!»
Nella foga si era dimenticato che i carretti hanno bisogno di qualcuno che li spinga. O che li traini, cosa che si accingeva a fare l’elfo dall’aspetto infuriato che spuntò un attimo dopo con un pugnale in mano.
Galan fu, tuttavia, più lesto e lo disarmò, poi passò sotto il carretto e riapparve dall’altra parte, con la spada sguainata.
L’elfo urlò e, arretrando, inciampò finendo contro un albero. Galan gli si avvicinò lentamente, minaccioso, e gli puntò la spada alla gola.
Il contadino, terrorizzato, iniziò a balbettare, implorando pietà e fornendogli frettolosamente ogni sorta d’informazione sul suo nome, sul suo lignaggio, sulla proprietà di quella coltivazione di funghi, su quanto fossero raffinati, sul tempo meraviglioso che avevano avuto ultimamente e…
Galan gli rivolse un sorriso malizioso e sollevò una mano. L’elfo fraintese il gesto.
«Naturalmente, signore! Per favore, perdonate la mia lentezza nel comprendere i vostri bisogni! Possiedo poco, essendo un povero contadino, ma è tutto vostro: tutto!» Con gesti frenetici il contadino si slacciò la cintura, ne sfilò la borsa e la porse a Galan con mani tremanti, mentre i pantaloni ampi e sudici gli cadevano alle caviglie.
La borsa era colma di monete: di piccolo taglio, senza dubbio, ma pur sempre dei buoni thalver e bedoar e thammarch del regno. Quando Galan la sollevò incredulo, l’elfo fraintese la sua espressione e farfugliò: «Ma certo, ne ho ancora! Non mi sognerei di ingannare un grande armathor che Corellon stesso ha inviato al nostro governatore per sopperire alla decadenza del regno! Ecco a voi!»
Questa volta il contadino si sfilò un sacchetto da una striscia di cuoio che portava intorno al collo: un sacchetto rigonfio di gemme. Galan lo prese spalancando gli occhi d’incredulità, al che l’elfo scoppiò in lacrime e gridò: «Non mi uccidere, oh potente armathor! Non ho altro da darvi se non il mio carretto di funghi e il mio pranzo!»
Galan accolse quell’ultima parola con un grugnito – be’, dopo tutto, come avrebbe parlato un potente armathor? – e allungò una mano insistente. Quando il contadino rimase a fissarla per un attimo, questi lo incalzò con la spada.
«Ah, ah, funghi?», urlò l’elfo sbigottito, in preda al panico. Galan aggrottò le ciglia, scosse il capo, e allungò nuovamente la mano.
«Uh… pranzo?», domandò timidamente il contadino. L’elfo col volto imbrattato di sangue annuì lentamente, enfatico, e abbozzò un sorriso.
Chili di funghi volarono in aria quando il contadino si mise a frugare in un angolo del carro; non trovando ciò che cercava imprecò tra le lacrime, farfugliò qualche scusa, e corse all’angolo opposto, dove altri funghi vennero scaraventati in aria.
Galan afferrò un fagotto avvolto nel panno, lo soppesò, e restituì la borsa di pietre preziose al contadino. Le gemme erano insidiose; troppe, a Cormanthor, nascondevano incantesimi di rintracciamento, o persino magie innescabili da lontano. Le monete erano di gran lunga più sicure.
Il coltivatore di funghi scoppiò a piangere e s’inginocchiò per ringraziare ad alta voce Corellon, e la quantità di lodi fu tale che Galan fu fortemente tentato di trafiggerlo sul posto.
Tuttavia, puntò la spada verso la caverna, intimando al contadino di entrarvi immediatamente. L’elfo piagnucolante non la vide, perciò Galan grugnì rumorosamente.
Nell’improvviso e totale silenzio che seguì, egli ripeté il gesto, facendo oscillare grandiosamente la spada, e quando la riabbassò sentì di aver colpito qualcosa. Galan aprì la bocca per pronunciare un’imprecazione quando vide un pezzo di mostro alato cadere dalla lama della spada, e udì il tonfo causato dal resto del corpo che si schiantava al suolo a poca distanza da lui. Ma il contadino iniziò a ringraziarlo con tale veemenza che l’unico Goadulphyn vivente – capo della casata, erede, guerriero, saggio e quant’altro – decise che non poteva più sopportarlo (era peggio di Athtar) e che era il caso di proseguire verso nord. Avrebbe aperto il fagotto e mangiato il contenuto solo quando fosse stato ben lontano da quel territorio abitato da coltivatori di funghi petulanti e creduloni.
Galan si trascinò per qualche chilometro, scuotendo continuamente il capo, finché non trovò un albero abbastanza vecchio e grande da contenere la consapevolezza di Corellon. Si diresse dritto verso di esso e mormorò con stupore: «Avete il senso dell’umorismo, Sacri Madre e Padre, non è vero?»