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L’albero non rispose, ma Corellon, probabilmente, aveva udito. Perciò Galan si sedette ai piedi dell’albero e divorò con gusto il pranzo del contadino. Il dio non fece obiezioni.

«Eredi abbattuti come uccelli lajauva in primavera! Armathor che spezzano e lanciano le spade per protesta! Che cosa sta diventando Cormanthor?» Lord Ihimbraskar Evendusk stava urlando ancora, il volto rosso e gli occhi ancor di più rossi. Una serva, irrigiditasi per il terrore causato dal suo improvviso impeto di rabbia, si ritrovò spiacevolmente sulla sua strada.

L’elfo si fermò, il pungolo per il cavallo ancora in mano. La frusta di pelle schioccò una, due, tre volte, e poi un sonoro manrovescio scaraventò la serva per terra. I dolci del vassoio si sparpagliarono sul pavimento e li rimasero, dimenticati.

Duilya rabbrividì. «Oh, dei», piagnucolò, «devo farlo per forza?»

Sì, Duilya… o prima o poi ti farà a pezzi con la frusta!

Duilya sospirò.

Non preoccuparti; ci siamo noi. Fai come d’accordo.

«È il Coronal, ecco chi è!», ringhiò Evendusk. «Eltargrim deve aver avuto strane idee in tesa quando bighellonava per Faerûn, frequentando sgualdrine umane e ascoltando ogni notte le loro impertinenze».

La consueta sfuriata mattutina di Lord Evendusk terminò con un assurdo silenzio. La sua sedia preferita si trovava al solito posto, e sul tavolo accanto ad essa, il tavolo su cui avrebbero dovuto poggiare un bicchiere di rubythrymm e una gemma visiva contenente le scene della festa della sera precedente, c’era un’intera bottiglia del suo migliore sherry triplo.

La moglie era seduta sulla sua sedia, avvolta in una tunica che gli avrebbe fatto accelerare le pulsazioni se Duilya fosse stata quaranta estati più giovane, due volte più magra, e un po’ meno familiare. Lei, tuttavia, sembrava non averlo notato.

Mentre la osservava, spostando il peso da un piede all’altro e respirando affannosamente, la donna raccolse un bicchiere vuoto dal pavimento, si strinse nelle spalle, e subito dopo lo ripose.

Poi stappò tranquillamente la bottiglia di sherry, la sollevò nella luce mattutina, mormorò un commento entusiasta e ne trangugiò l’intero contenuto, lentamente ma senza fermarsi, gli occhi chiusi e la gola che si muoveva ritmicamente.

La rabbia silenziosa di Lord Evendusk scomparve improvvisamente quando notò quanto fosse bella la gola della moglie. Non se n’era mai accorto.

Duilya ripose la bottiglia vuota sul tavolo – sì, vuota; l’aveva bevuta tutta! - sorrise ed esclamò ad alta voce: «Era tanto buona che credo ne berrò ancora».

Fece per raggiungere il campanello, quando il marito si riprese dalla sorpresa, ricominciò e diede libero sfogo alla sua collera, ora violenta. «Duilya! Per tutte le tane degli stramaledetti ragni, che cosa diamine pensi di fare?», abbaiò.

Suonato il campanello la moglie voltò la faccia stupida e solitamente ingenua verso Lord Evendusk, sorrise quasi timidamente, ed esclamò: «Buon giorno, mio signore».

«Ebbene?», ringhiò lui, avanzando di qualche passo. «Che cosa significa tutto ciò?», domandò indicando la bottiglia con il pungolo, e poi di nuovo la moglie.

La donna si accigliò lievemente, e sembrò ascoltare qualche cosa.

Ihimbraskar la prese bruscamente per le spalle e la scosse. «Duilya!», le gridò vicino alla faccia. «Rispondimi, altrimenti…»

Rosso in volto, l’elfo sollevò la frusta, e la tenne alzata, pronta a colpire, con mano tremante. Dietro di lui la stanza si riempì di servi preoccupati.

Duilya gli sorrise, e si aprì la tunica. Il nome del marito era scritto con le gemme sui suoi seni altrimenti nudi. «Ihimbraskar», saliva e scendeva a ogni respiro della donna mentre lui fissava, la bocca spalancata. Nel silenzio che si venne a creare la moglie affermò ad alta voce: «Non sarebbe meglio farlo in camera da letto, signore? Dove avrai più libertà d’azione?»

L’elfa gli sorrise lievemente e aggiunse: «Malgrado debba confessare che mi piaccia di più quando indossi le mie tuniche e mi lasci usare la frusta».

Lord Evendusk, che stava per diventare rosso in volto, impallidì improvvisamente. Uno dei servi sbuffò per sopprimere una risata, ma quando il padrone si voltò, e li guardò tutti con occhi spalancati, essi assunsero un’aria inespressiva e con voce stridula domandarono all’unisono: «Avete chiamato, grande Signora?»

Duilya sorrise dolcemente. «Sì, e vi ringrazio per la celerità. Naertho, vorrei un’altra bottiglia di sherry triplo accanto al mio letto, immediatamente. Niente bicchieri. Voi altri, aspettate per favore, nel caso mio marito necessiti di qualche cosa».

«Necessitare di qualcosa?», ringhiò Lord Evendusk, voltandosi. «Già, voglio immediatamente una spiegazione, sgualdrina, del tuo… questo…», agitò selvaggiamente le braccia, senza più parole, mentre i servi avevano ancora la bocca aperta per il termine offensivo, e poi terminò quasi disperatamente: «… comportamento!»

«Naturalmente», rispose Duilya, apparendo per un attimo quasi impaurita. L’elfa guardò i servi, fece un respiro profondo, sollevò il mento, quasi come se stesse seguendo istruzioni silenziose, e continuò vivace: «Sera dopo sera ti rechi alle feste, trascurando la tua famiglia. Mai mi hai portato con te, e avresti potuto portare una delle tue serve, se proprio non volevi che io assistessi a ciò che fai in tali occasioni, ma non l’hai mai fatto. Jhalass, laggiù, e Rubrae sono molto più giovani e carine di me; perché non le fai conoscere e non lasci che si divertano come fai tu?»

Sia la servitù sia Lord Evendusk la fissarono con occhi spalancati. Duilya si appoggiò allo schienale della sedia e accavallò le gambe com’era solita fare, poi, indicando se stessa esclamò: «Questo è tutto ciò che vedo di te al mattino, signore. Questo e un sacco di scenate e di grugniti. Perciò ho deciso di provare questa roba, per vedere quale attrattiva possa avere».

La donna arricciò il naso. «Sento soltanto un impellente bisogno di fare pipì, e a parte ciò, non mi sembra che lo sherry triplo sia poi tanto buono da doversene scolare ogni notte una bottiglia. Forse un altro assaggio mi convincerà del contrario? Per questo ho ordinato la seconda bottiglia accanto al letto… dove andremo ora, marito».

Lord Evendusk arrossì nuovamente e ricominciò a tremare, ma quando domandò: «Andare ora? Perché?», la sua voce era tranquilla.

«Bere tutte le notti non è una scusa per trascorrere la mattina barcollando come un idiota, infischiandosene degli onori di casa, e trascurandomi, notte dopo notte, e giorno dopo giorno. Siamo compagni, mio caro, ed è tempo che mi tratti come tale».

Ihimbraskar Evendusk sollevò la testa come fa un cervo, per prender fiato prima di abbeverarsi allo stagno. Quando la riabbassò, sembrava quasi calmo. «Potresti specificare meglio che cosa vuoi che faccia in proposito, moglie?», chiese con tono insinuante.

«Sederti e parlare», sbottò Duilya. «Qui. Adesso. Del Coronal, delle morti e del tumulto causato dall’umano».

«E che cosa sai tu di tutto ciò?», chiese l’elfo rimanendo in piedi e picchiettando il frustino sul palmo della mano.

Duilya indicò una sedia vuota. Lord Evendusk posò lo sguardo su di essa e di nuovo sulla donna, che, col braccio teso e immobile, indicava ancora la sedia.

Lentamente l’elfo si diresse verso di essa, vi piazzò sopra uno stivale e appoggiò i gomiti sul ginocchio. «Parla», esclamò dolcemente. Quando la guardò, qualcosa nei suoi occhi era cambiato.

«So che tu – e altri signori come te – siete la spina dorsale di Cormanthor», riprese Duilya guardandolo negli occhi. Le sue labbra tremarono per un istante, come se stesse per piangere, ma fece un respiro profondo e continuò cautamente: «Sulle vostre spalle poggia la grandezza e lo splendore di tutti noi. Non pensare mai, nemmeno per un istante, che io non ti riverisca per il lavoro che fai, e per l’onore che hai conquistato».