La ragazza che aveva quasi aperto la sua mente per fare di lui il suo giocattolo e la sua fonte d’incantesimi. La ragazza che egli aveva a sua volta tradito e consegnato al suo rivale, Elandorr. Di entrambi non aveva più notizie.
Già. Ora sapeva chi era. Elminster, sfidato da Delmuth Echorn e successivamente da una banda di ardavanshee guidati da Ivran Selorn, che gli avevano dato la caccia nel castello dei Dlardrageth. Elminster l’Eletto presuntuoso e disattento. Elminster che, ebbro di potere, si era lanciato diritto nell’incantesimo in attesa dei quattro maghi: un incantesimo che lo aveva distrutto.
Era ancora tutto d’un pezzo? Oppure era solo un fantasma, la sua vita mortale ormai terminata? Forse Mystra lo aveva mantenuto in vita – sempreché ciò significasse essere vivo – per compiere i suoi progetti, un fallimento causato per completare la missione.
Elminster fu improvvisamente consapevole di potersi muovere nel vuoto, di poter correre in questa o in quella direzione col semplice pensiero. Tuttavia ciò significava ben poco quando non c’era un punto verso il quale recarsi, bensì vuoto oscuro da tutte le parti, luci e rumori disseminati qua e là apparentemente a caso, dappertutto e in nessun posto.
Il mondo intorno a lui era sempre stato, fino ad allora, una serie di «dove» specifici, un paesaggio di mete diverse e spesso precise, dalle distese desolate dei fuorilegge, al di là di Athalantar, alla profonda foresta di Cormanthor.
Forse quella era la morte. Faerûn e un corpo col quale camminare erano ciò che gli mancava. Quasi senza pensare si lanciò in una corsa disperata nel vuoto, alla ricerca di una fine nell’infinito, di un limite, magari di una fessura dalla quale intravedere la luce di Faerûn in tutta la sua familiare gloria.
E mentre continuava nel suo movimento rapido e inutile, si rivolse a Mystra con un grido mentale silenzioso: Mystra, dove sei? Aiutami. Sii la mia guida, ti scongiuro.
Trascorse un momento buio, durante il quale le parole nella sua testa sembrarono rotolare all’infinito. Poi vi fu uno scoppio di luce brillante, quasi accecante, accompagnato da uno squillo di tromba che echeggiò stridente attraverso di lui, scuotendolo da parte a parte nel suo frastuono assordante. Quando tutto terminò, El si ritrovò a ripercorrere a ritroso la via da cui era venuto, lo stesso medesimo percorso, malgrado non capisse come facesse a sapere ciò che gli stava accadendo.
Alla fine, nel vuoto comparve un orizzonte, una linea di foschia blu con un punto luminoso al centro, come una gemma su un anello: ed Elminster di Athalantar era diretto verso quel punto lontano.
La distanza sembrava enorme, ma il giovane parve acquistare una velocità vertiginosa e liberarsi di qualcosa durante la folle corsa, finché, finalmente, abbandonò l’oscurità e schizzò fuori nella luce. La luce di un sole morente sopra gli alberi di Cormanthor, le rovine scure di Castel Dlardrageth all’orizzonte, e qualcosa che lo esortava in un’altra direzione. Seguì quello strano impulso, dubitando di poter fare altrimenti, e volò basso sopra le cime degli alberi, veloce come fosse inseguito da un drago.
Qua e là, sotto di lui, intravide sentieri e piccoli ponti di legno tesi di albero in albero, che facevano dei giganti della foresta le case viventi di elfi. Stava attraversando Cormanthor a una velocità formidabile. Ora discese e rallentò, come guidato da una grande mano invisibile.
Grazie mille, Mystra, pensò, sapendo chi ringraziare. Sorvolò alcuni giardini e si ritrovò nel centro vitale della città di Cormanthor.
Rallentò ulteriormente, come non fosse altro che una foglia sollevata da una brezza gentile. In verità non udiva il minimo soffio di vento, né sentiva muoversi l’aria fredda o umida. Torrette e sfere fluttuanti, vagamente luminose, gli passarono accanto mentre il suo volo guidato terminava, ed egli incominciò a muoversi liberamente.
Iniziò a spostarsi di qua e di là verso qualsiasi cosa attirasse la sua attenzione. Mentre volava passò in mezzo ad alcuni elfi che non lo videro e – come scoprì quando si ritrovò a sbattere contro un carretto stracarico di funghi che gli passò attraverso come nulla fosse – nemmeno lo sentirono. Era davvero un fantasma, a quanto pareva: un’ombra invisibile, silenziosa, in grado di volare inosservata.
Mentre gironzolava spiando la vita fervente di Cormanthor, iniziò anche a udire. Dapprima un mormorio flebile e confuso, rotto da rumori più forti, che via via crebbero fino a diventare un chiacchierio assordante. Sembrava essere l’insieme delle conversazioni e dei versi di migliaia di elfi, come se potesse udire tutta Cormanthor, indipendentemente dalle distanze, dai muri e dalle profondità delle cantine.
Si librò per qualche istante in un groviglio di cespugli, fra tre alberi poco distanti fra loro, in attesa che il chiasso svanisse o di perdere completamente il senno. Lentamente, i rumori si affievolirono, ed El cominciò a udire soltanto ciò che avrebbe percepito l’orecchio normale: i suoni vicini, il fruscio gentile e incessante di foglie agitate dal vento. Si rilassò, di nuovo in grado di pensare, finché tale pensiero non divenne curiosità e desiderio di sapere ciò che stava accadendo a Cormanthor.
Dunque era invisibile, silenzioso, e inodore, anche per gli elfi più vigili. L’ideale per spiare le loro azioni. Ma forse era meglio assicurarsi della sua trasparenza prima di cacciarsi in qualche guaio.
Iniziò allora a scagliarsi sugli elfi nelle strade e sui ponti, gridando e cercando di spaventarli. Passò anche attraverso alcuni di loro mentre cercava di afferrarli e li insultava. El riusciva a sentire benissimo ciò che diceva e riusciva anche a plasmare membra fantasma per colpire e sferzare: membra che finalmente poteva sentire e nelle quali percepiva dolore se le strofinava forte.
I suoi bersagli elfi, tuttavia, non lo notavano. Ridevano e chiacchieravano in un modo in cui mai si sarebbero sognati di fare se avessero avvertito la presenza di un uomo nelle vicinanze. El si levò a mezz’aria dopo essere passato attraverso una signora d’alto rango e dall’aspetto particolarmente glaciale, e rifletté che forse non aveva molto tempo per godere di quello stato. Dopo tutto, nessuno dei suoi poteri dal momento del risveglio era rimasto immutato a lungo. Perciò meglio iniziare l’opera di spionaggio.
Innanzitutto, doveva controllare una cosa.
Aveva un ricordo indistinto delle strade: era già passato di là, pensò, il suo primo giorno in città, quando cercava Casa Alastrarra. Un edificio particolarmente imponente, nel cuore di un giardino circondato da mura; avrebbe dovuto trovarsi in quella direzione.
La sua memoria non lo tradì. Fu questione di un secondo oltrepassare il cancello inosservato, e cercare la grande casa; scoprì di poter passare attraverso piccole strutture, specialmente di legno, ma scoprì anche che pietra e metallo costituivano un problema, e non riusciva a infiltrarsi nelle pareti solide. Una finestra, tuttavia, fu più che sufficiente, ed El entrò nello splendore tappezzato di una casa riccamente ornata. I pavimenti erano coperti da tappeti di pelliccia, e tutte le pareti erano dotate di sedili e divani di legno levigato. Le ricche famiglie elfe sembravano amare in particolare il vetro soffiato multicolore e le sedie. El vi passò accanto come un filo di fumo risoluto, alla ricerca di una cosa particolare.
La trovò in una stanza da letto decorata, in cui una coppia di elfi nudi stavano fluttuando abbracciati sopra il letto, discutendo seriamente – quasi rabbiosamente – degli affari del regno. Elminster giudicò gli argomenti avanzati dal signore e dalla signora Evendusk tanto affascinanti che si fermò a lungo ad ascoltarli, prima che una disputa puramente personale sulla moderazione e sul consumo di sherry triplo lo facesse finire steso sul pavimento. Lì, poco distante dal tappeto, era chiaramente visibile l’incantesimo pulsante che circondava il boudoir di Duilya Evendusk.