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Elminster annuì silenziosamente e in risposta ebbe un rauco «Allora accomodati. Due monete d’argento per un letto, due per i pasti, una moneta di rame per ogni boccale extra, e il bagno è escluso. L’osteria è laggiù sulla sinistra; tieni la borsa con te, ma ti avviso: a casa mia sbatto fuori chiunque sfoderi una spada. Immediatamente, nel cuore della notte, e senz’armi. Tutto chiaro?»

«Chiaro», rispose El con fare dignitoso.

«Hai un nome?», domandò l’oste robusto, appoggiando un braccio grassoccio e peloso sul davanzale della finestra.

Per un istante El fu tentato di rispondergli solamente «Sì», ma la prudenza gli fece ribattere: «El, da Athalantar, sono diretto alle Rapide».

La testa dell’uomo si chinò in segno di assenso. «Io sono Drelden. L’ho costruito io questo luogo. Pane, sugo e formaggio, li trovi su quella tovaglia. Spillati un boccale e di’ a Rose che cosa desideri. Sta preparando la zuppa».

La faccia dell’uomo scomparve, e quando dalla finestra giunse il tonfo dei barili che venivano spostati di qua e di là, il giovane fece come gli era stato indicato.

Una schiera di volti circospetti si sollevò non appena El entrò nell’osteria, e lo osservò con silenzioso interesse mentre cospargeva tranquillamente il suo formaggio con la senape e si sistemava in un angolo con il boccale. Elminster fece un cortese cenno di saluto all’intera stanza e uno entusiasta a Rose, dopodiché cominciò a riempirsi lo stomaco brontolante e a ricambiare gli sguardi di coloro che lo scrutavano.

In un altro angolo vi era una decina di uomini e donne corpulenti, sudati, dall’aspetto esausto, con indosso camiciotti, stivali enormi, sformati e pieni di fango: contadini locali, ritrovatisi davanti a un piatto prima di andare a dormire.

Su un tavolo sedevano alcuni uomini con un’armatura di pelle, stracarichi di armi, che esibivano l’emblema di una spada scarlatta su uno scudo bianco; uno di questi notò che Elminster lo studiava e grugnì: «Siamo le Spade Scarlatte, dirette nel Calishar in cerca di un lavoro come scorta delle carovane».

In risposta il giovane dichiarò il suo nome e la sua destinazione, bevve un sorso di birra, e tacque finché tutti non si scordarono di lui.

Tutti ripresero così le loro conversazioni. Gli ultimi ospiti, due uomini barbuti e chiassosi in abiti logori, che portavano spade consunte e un piccolo arsenale di tazze tintinnanti, coltelli, magli e di altri piccoli utensili, parevano fare a gara nel riferire le notizie più recenti.

Uno, Karlmuth Hauntokh, era più villoso, più grasso e più arrogante dell’altro. Mentre il giovane principe guardava e ascoltava, questi si fece eloquente sulle «opportunità che bollono in pentola in questo momento. Bollono, te lo dico io, per cercatori come me, e Surgath qui presente».

Poi si sporse per fissare le Spade Scarlatte con occhi vecchi e saggi, e, con un sussurro rauco e confidenziale che si udì probabilmente anche nelle stalle circostanti, aggiunse: «Si tratta degli elfi, vedi? Se ne sono andati – nessuno sa dove – semplicemente scomparsi. Hanno abbandonato quello che chiamano Elanvae, ossia i boschi lungo il fiume Reaching, a nordest da qui, lo scorso inverno. Ora tutta quella terra è nostra, pronta per il “raccolto”. Nemmeno dieci giorni fa laggiù ho trovato un gingillo – oro e pietre incastonate – in una casa crollata!»

«Sì», esclamò uno dei contadini con tono ironico, «e quant’era grande, Hauntokh? Più grande della mia testa?»

Il cercatore gli lanciò un’occhiata torva, le sopracciglia nere unite a formare un muro ostile. «Chiudi quella boccaccia, Naglarn», grugnì. «Quando sono là fuori, ad agitare la mia spada per allontanare i lupi, è raro che ti veda camminare coraggiosamente nei boschi!»

«Alcuni di noi», rispose Naglarn con aria sprezzante, «hanno un lavoro onesto da portare avanti, Hauntokh, ma tu non sai di che cosa parlo, non è vero?» Vari agricoltori ridacchiarono o sorrisero stancamente in silenzio.

«Questa te la perdono, contadino», ribatté freddamente il cercatore, «il Corno mi piace, e intendo venire a bere qui anche quando gli elfi ti avranno fatto fuori. Ma ti consiglio di non schernirli».

La mano irsuta di Hauntokh guizzò nella camicia con la rapidità di un serpente, e dalla peluria brizzolata del torace estrasse una borsa di pezza delle dimensioni di un pugno. Con le dita forti e tozze l’uomo ne aprì i lacci e ne mostrò il contenuto: una sfera d’oro scintillante, costellata di gemme lucenti. Quando il cercatore la sollevò fiero, tutti i presenti rimasero senza fiato.

Era un oggetto meraviglioso, antico e raffinato come altre opere elfe che Elminster aveva avuto modo di contemplare, e valeva probabilmente di più di una decina di Corni dell’Araldo messi insieme. E molto di più, se quel bagliore era magico. El guardò la luce interna alla sfera giocherellare riflessa sull’anello che il cercatore portava al dito: un anello recante l’effigie di un serpente pronto ad attaccare.

«Mai visto niente del genere?», gongolò Hauntokh. «Eh, Naglarn?» Poi si volse verso gli avventurieri delle Spade Scarlatte che, seduti sull’orlo delle sedie, lo guardavano ammutoliti e bramosi.

«E tu, Surgath?» infierì. «Hai mai portato a casa qualche cosa che valga almeno la metà di questa, eh?»

«Ora ti mostro», replicò l’altro uomo dal volto barbuto e segnato dalle intemperie, dopo essersi grattato la testa. «Ora ti mostro». Si agitò sulla sedia e appoggiò un piede sul tavolo, mentre Karlmuth Hauntokh sogghignava, godendosi quel momento di chiara supremazia.

Dopodiché il cercatore sudicio estrasse qualcosa di lungo e sottile dallo stivale, un sorriso di soddisfazione stampato sul volto, che faceva concorrenza a quello di Karlmuth. Non gli rimanevano molti denti, osservò El.

«Non avevo intenzione di umiliarti, Hauntokh», esclamò allegramente. «No, non è da Surgath Ilder. Tranquillo e sicuro, questo è il mio motto: tranquillo e sicuro». Sollevò il cilindro lungo e sottile, e pose la mano sulla seta nera sgualcita che lo avvolgeva. «Anch’io sono stato nell’Elanvae», affermò strascicando le parole, «per vedere quali pelli, e quali tesori, ci fossero. Anni fa, forse prima che tu nascessi, Hauntokh…»

Il cercatore più robusto ringhiò, ma i suoi occhi non persero mai di vista l’oggetto avvolto nella seta nera.

«Ho imparato che quando si è di fretta, nelle foreste elfe, è possibile trovare entrambe le cose, bestie e bottino, in un unico luogo: una tomba».

Nonostante fossero già tutti zitti, quell’ultima parola fece calare un silenzio spettrale nella sala.

«È l’unico luogo che quei fastidiosi elfi tendono a evitare, capite», continuò Surgath. «Perciò, se siete disposti a rischiare la vita ogni tanto, potreste, forse, essere abbastanza fortunati da trovare una cosa come questa». Detto ciò, tolse con un gesto fulmineo l’involucro di seta.

Si udì un mormorio, poi ancora silenzio. Il cercatore reggeva tra le mani una bacchetta d’argento cesellata e scanalata. Una delle estremità terminava in una lingua ondeggiante simile a una fiamma stilizzata, e l’altra recava una gemma blu cielo grande quanto la bocca spalancata della Spada Scarlatta più vicina. Nel mezzo, un drago slanciato, dall’aspetto quasi vero, era avvolto attorno allo scettro, i suoi occhi due gemme fluorescenti: una verde, l’altra color ambra, e sulla punta della coda arrotolata spiccava un’altra pietra, dello stesso colore della birra chiara.

Elminster fissò l’oggetto per qualche istante, prima di ricordarsi di sollevare il boccale e mascherare l’eccitazione del suo volto. Uno strumento simile gli sarebbe stato molto utile ora, se avesse dovuto duellare con guardie elfe. Era un loro manufatto, doveva esserlo, tanto bello e levigato. Ma quali poteri aveva?