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Fu tutto ciò che osò fare. El represse un impellente desiderio di aggredire il mago mascherato, che fluttuava di spalle poco lontano, elaborando incantesimi per conto suo, e le strizzò l’occhio prima di voltare rapidamente la testa. Il Maestro frugava troppo spesso nelle loro menti per potergli nascondere la loro stima reciproca, e spesso faceva sì che Nacacia schiaffeggiasse il suo apprendista umano, o altrimenti si tenesse alla larga da lui, e che se mai gli rivolgesse la parola, lo facesse con toni duri.

Raramente il misterioso mago elfo obbligava Elminster a fare qualcosa. Sembrava piuttosto osservarlo in attesa, e ogni suo atto di sfida veniva punito severamente. Ricordando alcune di quelle punizioni, El rabbrividì involontariamente.

Arrischiò un’altra occhiata a Nacacia, e scoprì che anche la ragazza stava facendo lo stesso. I loro sguardi si incontrarono quasi colpevoli, ed entrambi voltarono gli occhi frettolosamente. El strinse i denti e cominciò a scalare la rete incantata per allontanarsi da lei: qualsiasi cosa pur di muoversi e fare qualcosa.

Mystra, pensò silenziosamente, cercando di scacciare l’immagine vivida del volto sorridente di Nacacia. Oh, Mystra, ho bisogno della tua guida: tutti questi anni di schiavitù sono parte del tuo piano?

Il mondo intorno a lui sembrò scintillare, ed egli si ritrovò improvvisamente su un pascolo roccioso. Era quello sovrastante Heldon, sul quale da ragazzo portava le pecore!

Soffiava la brezza, faceva freddo e – combinazione – era anche nudo.

Sollevando il capo vide la sua maestra di tanti anni prima: Myrjala, conosciuta anche come «Occhi Scuri». Quei grandi occhi sembravano più profondi e più affascinanti che mai mentre, sdraiata nell’aria sopra l’erba verde, lo guardava. Il vento non spostava di un soffio la sua tunica di raso scura.

Myrjala era Mystra. Elminster allungò un braccio verso di lei.

«Grande Signora», sussurrò, «sei davvero tu… dopo tutti questi anni?»

«Naturalmente», rispose la dea, gli occhi due pozzi scuri di promesse. «Perché hai dubitato di me?»

El rabbrividì per la vergogna improvvisa, si inginocchiò, e abbassò gli occhi. «Io… ho sbagliato e… be’, è passato tanto tempo e…»

«Non molto per un elfo», ribatté Mystra dolcemente. «Stai finalmente imparando a pazientare, o sei davvero disperato?»

Elminster la guardò con occhi lucidi, sull’orlo delle lacrime. «No!», gridò. «Tutto ciò di cui avevo bisogno era questo, vederti, e sapere che sto facendo la tua volontà. Io… io ho ancora bisogno della tua guida».

La dea gli sorrise. «Almeno sei consapevole di averne bisogno. Alcuni non lo sono, e si gettano nella vita, devastando tutto ciò che possono raggiungere su Faerûn, ne siano essi consapevoli o no». Sollevò una mano, e il suo sorriso mutò.

«Tuttavia rifletti su ciò che ti dirò, mio carissimo Eletto: molti individui di Faerûn non hanno tale guida, eppure imparano a camminare con le proprie gambe, seguendo le proprie idee nel fiume della vita, e commettendo i propri errori. Tu sei certamente padrone di quest’ultima arte».

Il principe distolse lo sguardo, soffocando di nuovo le lacrime, ma Mystra rise e gli toccò la guancia. Un fuoco incandescente sembrò pervadere il suo corpo.

«Non affliggerti», lo consolò, come una madre col figlio piangente, «poiché stai imparando la pazienza, e la tua vergogna è infondata. Malgrado la paura di esserti dimenticato di me e allontanato dalla tua missione, io mi compiaccio con te».

Heldon si fece scuro e sfumò attorno al volto della donna, che mutò, e divenne quello di Nacacia.

Elminster batté le palpebre, mentre la ragazza gli sorrideva. Era di nuovo nella tela magica. Fece un respiro profondo e tremulo, le sorrise, e continuò a salire. Ma qualsiasi cosa facesse, i suoi pensieri rimanevano fissi sulla collega apprendista, il suo volto sempre chiaro nella mente. Talora si domandava quanto il Maestro potesse vedere di tali scene mentali e che cosa pensasse realmente di loro.

Nacacia. Ah, abbandona i miei pensieri per un attimo, lasciami in pace! Ma no…

La ragazza dagli occhi brillanti era un’orfana mezzo sangue, che una notte aveva fatto la sua entrata nella torre rannicchiata fra le braccia del Mascherato. El sospettò che egli avesse saccheggiato il villaggio in cui viveva.

Un carattere spumeggiante, una natura birichina che il mago cercava di spegnere con incantesimi o trasformazioni in animali più o meno ripugnanti, e un’allegria che permaneva qualsiasi punizione si inventasse l’elfo, Nacacia si era rapidamente trasformata in un’autentica bellezza.

Aveva una chioma castana dai riflessi ramati che le ricadeva in una folta cascata fino all’incavo delle ginocchia, e schiena e spalle sorprendentemente muscolose; dal punto in cui si trovava in quel momento, El poteva ammirare la linea profonda e curva della sua colonna vertebrale. I grandi occhi, il sorriso e gli zigomi mostravano la bellezza classica del sangue elfo, e la sua vita era tanto sottile da sembrare finta.

Il Maestro le permetteva di indossare pantaloni e gilè neri da ladro e di tenere i capelli lunghi. Le aveva persino insegnato sortilegi per animarli in modo da farsi accarezzare quando la portava nella sua stanza, e lasciava fuori Elminster, a fluttuare furioso.

La ragazza non gli raccontava mai ciò che accadeva nella stanza del mago, eccetto che il loro Maestro non si toglieva mai la maschera. Una volta, svegliandosi da un incubo, Nacacia farfugliò qualcosa su «tentacoli morbidi e terribili».

Il Mascherato non solo non si toglieva mai la maschera, ma neanche mai dormiva. Per quanto aveva potuto notare El, il Maestro non aveva né amici né parenti, e nessun cormanthoniano si rivolgeva a lui. Trascorreva le sue giornate a elaborare e inventare magie e a insegnare incantesimi ai suoi due apprendisti. Talora li trattava quasi come amici, pur non rivelando mai nulla di sé, talaltra non mancava di far notare loro che erano suoi schiavi, e gran parte delle volte li faceva lavorare come bestie da soma. Effettivamente sembrava che si divertisse a tentare i due apprendisti con la compagnia reciproca, costringendoli, seminudi, a fare lavori sudici e scivolosi di pulizia, o di riordino; ma ogni volta che lui e Nacacia si toccavano, per prestarsi un aiuto innocente o per consolarsi, egli li colpiva con una punizione.

I castighi erano numerosi e vari, ma quello favorito dal Maestro consisteva nel paralizzare il corpo degli apprendisti con incantesimi e porvi sopra sanguisughe acide. Mentre scivolavano sulla pelle, o vi penetravano quasi pigramente, le creature lente e scintillanti secernevano una bava bruciante. Il Mascherato rimediava sempre in tempo ai danni apportati, affinché i suoi schiavetti rimanessero in vita, ma Elminster poté constatare che a Faerûn esistevano poche cose tanto dolorose quanto quella sorta di lumache che si facevano lentamente strada nei polmoni, nello stomaco, o nelle viscere.

In quei venti lunghi anni di apprendimento di complicate magie elfe, El aveva, tuttavia, imparato a rispettare il Maestro. Questi era un meticoloso inventore d’incantesimi, non lasciava mai nulla al caso, prevedeva tutto e non sembrava mai sorpreso; possedeva un istinto naturale per la magia, e riusciva a modificare, a combinare o a improvvisare incantesimi con il minimo sforzo e senza esitazioni. Non dimenticava mai dove metteva le cose, anche le più banali, e manteneva costantemente un controllo ferreo su se stesso, senza mai mostrare stanchezza, solitudine, o il bisogno di confidarsi con qualcuno. Persino le sue sfuriate sembravano calcolate.

Inoltre, anche dopo vent’anni di stretto contatto, Elminster non sapeva chi fosse. Un membro di qualche antica e fiera casata, senza dubbio, e – a giudicare dalle sue vedute – nemmeno tanto vecchio. Il Mascherato proiettava spesso una falsa copia di se stesso, in modo da poter sbrigare faccende altrove e contemporaneamente istruire il suo apprendista.