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Un attimo dopo era già sepolto nella paglia, nascosto alla vista e protetto dal freddo da una spessa coltre di fieno. Cercò di rilassarsi, e si concentrò affinché la sua mente lo conducesse nel vuoto fluttuante dei sussurri… per sprofondare nel bagliore bianco, e dormire…

Il fieno frusciò e gli graffiò le mani. Elminster spalancò gli occhi: si stava sollevando dal suo giaciglio… stava volando! La sua testa sbatté duramente contro una trave del soffitto.

«Le mie scuse, Principe», esclamò una voce fredda e familiare. «Temo d’avervi svegliato». Elminster si sentì rivoltare in aria e a un tratto si ritrovò di fronte al mago che stava in piedi nel corridoio tra le stalle, un sorriso tenebroso sulle labbra. Il bagliore bluastro della magia pulsava intorno alle mani dell’uomo e avvolgeva il ciondolo che portava al collo.

El fu colto da una rabbia improvvisa quando cercò di afferrare la Spada del Leone, ma scoprì di non poter muovere le braccia. Era in balia del mago! Aprì la bocca e constatò che poteva parlare. «Chi siete?» domandò lentamente.

Il mago abbozzò un elaborato inchino e rispose affabilmente: «Caladar Thearyn, al tuo servizio». Il giovane si sentì trascinare in avanti e nel contempo vide un forcone dai lunghi denti scostarsi dal muro della stalla e dirigere una delle punte acuminate verso il suo occhio sinistro. Lentamente, sempre più vicino.

Elminster guardò il mago, oltre il forcone, soffocando la necessità di deglutire. «Il vostro modo di combattere non è leale, mago», esclamò con freddezza.

L’uomo scoppiò a ridere: «Quanti anni avete, mio principe… sedici? E vi aspettate ancora che il mondo sia un luogo leale? Bene, siete uno sciocco». Sogghignò. «Vi credete un guerriero e combattete con pezzi di metallo affilati… bene, allora: io sono un mago e combatto con gli incantesimi. Dove sta la slealtà in tutto questo?»

La luce bluastra della magia iniziò a pulsare violentemente attorno alle mani del mago e il forcone avanzò ulteriormente. La bocca del ragazzo era insopportabilmente asciutta ora, e il ragazzo deglutì suo malgrado.

Il mago rise. «Adesso non siamo più tanto coraggiosi, vero? Ditemi Principe di Athalantar, quanto siete disposto a fare per me se vi lascio vivere?»

«Vivere? Perché non uccidermi, mago? So che volete farlo», esclamò El ostentando più spavalderia di quanta ne provasse.

«Altri maghi», citò l’uomo beffardamente, «hanno progetti propri». Scoppiò in una risata crudele. «Quale Principe di Athalantar avete un grande valore. Se accade qualcosa a Belaur – o se sarà necessario farlo accadere – mi farebbe comodo avere un asso nella manica… nel caso dovessero nascere dei dissapori». Il forcone si avvicinò ancora di più. «Naturalmente, la cecità non ti sarà d’ostacolo quando ti trasformerò in… una tartaruga magari, o in una lumaca. O meglio, un verme! Potrai nutrirti col sangue dei tuoi amici, i briganti, quando li uccideremo. Se non riusciremo a prenderli, naturalmente, morirai di fame…»

La voce sarcastica del mago si trasformò in una fredda risata. Elminster iniziò improvvisamente a sudare, mentre una paura gelida gli saliva lentamente dalla gola. Era sospeso in aria, tremante e indifeso, e chiuse gli occhi.

Un istante più tardi la forza dell’incantesimo lo costrinse a riaprirli e a guardare il mago fisso negli occhi. Scoprì di non poter più parlare, né emettere alcun suono, all’infuori del sibilo del respiro.

«Niente grida, adesso», esclamò gentilmente il mago. «Non voglio svegliare la brava gente della locanda – ma voglio vedere la tua faccia quando il forcone affonderà i suoi denti». Elminster poté solo fissare con orrore il forcone che avanzava minaccioso, sempre più vicino…

Dietro il mago, una porta laterale si aprì silenziosamente e un uomo robusto con dei baffi arricciati si affacciò alla stalla, tenendo una pesante ascia sollevata sopra la testa. La fece ricadere con forza. Si udì un tonfo sordo, e la testa del mago, divisa in due, ciondolò metà da una parte e metà dall’altra. Vi fu un violento fiotto di sangue, ed Elminster e il forcone caddero improvvisamente sul pavimento.

In un istante si rialzò, afferrò la Spada del Leone e si precipitò…

«Indietro, mio Principe!» urlò l’uomo, trattenendolo con una mano enorme. «La sua morte potrebbe essere collegata a qualche incantesimo!»

L’uomo indietreggiò di un passo e osservò attentamente il corpo, con l’ascia insanguinata pronta sulla spalla. Anche Elminster rimase a guardare, e vide i deboli bagliori bluastri scemare da ogni cosa, tranne che dal ciondolo. Poi, lentamente uscì dal recinto. «Quel ciondolo è magico», affermò tranquillamente, «ma non riesco a vedere nient’altro. Vi ringrazio».

L’uomo si inchinò. «È un onore, se sei colui che ha detto il mago».

«Lo sono», rispose il giovane. «Sono Elminster, figlio di Elthryn, ora defunto. Helm Spadadipietra ha detto che potevo fidarmi di voi… se siete Broarn».

L’uomo si inchinò ancora. «Sono io. Siate il benvenuto nella mia locanda, ma devo avvertirvi, signore, che sei soldati dormono sotto questo tetto stanotte e almeno un mercante che riferisce ai maghi tutto ciò che vede».

«Questa stalla è sufficiente», rispose Elminster con un sorriso. «Sono fuggito dai maghi e dai soldati attraverso le Colline del Corno, fino a qui… e cominciavo a domandarmi se esistesse un luogo libero da quelle carogne».

«Non esiste alcun luogo dove nascondersi dalla magia potente», ribatté Broarn con tono serio. «Perché queste terre non appartengono più agli elfi, bensì agli uomini».

«Credevo che la loro magia fosse più potente di quella degli umani», esclamò stupito El.

«Sì, se unissero le loro forze, ma gli elfi non amano la guerra e trascorrono gran parte del tempo a litigare fra loro. Molti, inoltre, sono… un po’ poltroni, come diremmo noi; pensano di più a divertirsi e meno a lavorare». Il locandiere uscì dalla porta dalla quale era entrato, e tornò con una coperta in mano.

«I maghi umani ne sanno meno», continuò Broarn, uscendo nuovamente e riapparendo con un vassoio coperto e un vecchio boccale ammaccato, grande quanto la testa di Elminster, «ma sono sempre alla ricerca di vecchie magie o tentano di crearne di nuove. I maghi elfi si limitano a sorridere, e dicono di sapere già tutto ciò di cui hanno bisogno – o, se sono arroganti, affermano di sapere tutto ciò che c’è da sapere – e non fanno nulla».

Elminster vide uno sgabello e vi si sedette. «Ditemi di più», lo incalzò. «Per favore. Ciò che il mago ha detto a proposito dei miei modi semplici è alquanto vero. Vorrei conoscere un po’ di più il mondo».

Broarn sorrise e gli porse vassoio e boccale; il suo sorriso si allargò quando Elminster sollevò il coperchio, vide il pollo freddo e cominciò a divorarlo. «Ah, ma siete abbastanza intelligente da riconoscerlo, signore, mentre molti non lo sono. Per Athalantar c’è poco da dire: i signori maghi tengono questa terra per la gola e non intendono mollare la presa. Tuttavia, per quanto si diano delle arie, non sono riusciti a sostenere un apprendistato di magia nelle terre del sud».

Elminster sollevò lo sguardo con la bocca piena e inarcò le sopracciglia. Il locandiere annuì. «Sì, le terre laggiù sono sempre state ricche e affollate. Il regno più grande è il Calimshan; il luogo da cui provengono quei mercanti dalla pelle scura con le teste fasciate, che arrivano tutti avvolti nelle pellicce, in primavera e in autunno».

«Non li ho mai visti», affermò tranquillamente Elminster.

Il locandiere si lisciò i baffi. «Vi hanno tenuto segregato, ragazzo. Comunque, per farla breve, esiste un’enorme terra senza legge a nord del Calimshan, tutta foreste e fiumi, dove i nobili vanno sempre a caccia… o meglio vi andavano. Un arcimago, ossia un mago di gran lunga più potente di questi signori maghi», Broarn si interruppe per sputare pensosamente sul mago morto ai suoi piedi, «si è stabilito lì e ora governa gran parte del paese, il Calishar, come sono soliti chiamarlo; non so se lo abbia ribattezzato, con la sua mania di cambiare ogni cosa. La gente lo chiama il Mago Pazzo, perché per esaudire i suoi capricci non bada a ciò che distrugge; Ilhundyl è il suo vero nome. Da quando ha rivendicato la terra, molti sono emigrati, per lo più a nord, per timore di essere trasformati in rane o in falchi».