Farl rise. «Lasciami perdere per un attimo, e parla».
Elminster rifletté un momento. «Non ucciderò gente innocente… e non mi piace derubare nessuno fuorché i ricchi mercanti, che sono avidi, antipatici o palesemente disonesti. Oh, e i maghi, naturalmente».
«Li odi proprio, vero?»
Elminster si strinse nelle spalle. «Io… io provo ribrezzo per chi si nasconde dietro la magia e comanda solo perché qualcuno gli ha insegnato a leggere, o perché gli dei gli hanno dato il potere di esercitare la magia, o altro. Dovrebbero usare i loro poteri per aiutarci, non per sottomettere e intimidire».
«Se tu ora fossi Belaur», affermò a bassa voce Farl, «che cosa potresti fare, in nome degli dei, se non obbedire ai maghi?»
El scrollò le spalle. «Per quanto ne so potrebbe essere imprigionato. Non si mostra mai alla plebaglia affinché possa conoscerlo – ai sudditi che dovrebbe servire – quindi come posso saperlo?»
«Hai detto una volta che i tuoi genitori sono stati uccisi da un mago a cavallo di un drago», asserì Farl.
Elminster lo guardò severamente. «Davvero?»
«Eri ubriaco. Io – poco dopo esserci conosciuti – dovevo sapere se potevo fidarmi di te, così ti ho fatto ubriacare. Quella notte al Cerchio di Spade, non facevi altro che ripetere “fuorilegge” e “ucciderò i maghi”».
Elminster fissò fermamente la sommità in rovina di una tomba vicina. «Ogni uomo ha bisogno di un’ossessione», rispose voltando la testa. «Qual è la tua?»
Farl alzò le spalle. «L’eccitazione; se non rischio, non sono vivo».
Elminster annuì, pensando a ciò che era accaduto.
Era stata una giornata fredda, burrascosa, e nelle vie di Hastarl il fango arrivava alle caviglie. El era appena giunto in città e si stava guardando in giro. Aveva imboccato un vicolo cieco, e quando si era girato per tornare sui suoi passi, aveva visto davanti a sé una schiera di uomini sogghignanti, dallo sguardo meschino, che gli bloccavano la strada. La banda era capeggiata da un gigante quasi calvo, corpulento, vestito di pelle logora, con un bastone imbottito in una mano e un sacco di tela grande abbastanza da contenere la testa di Elminster – poiché quello era lo scopo – nell’altra. Gli uomini iniziarono ad avanzare verso di lui.
El indietreggiò, toccando la Spada del Leone e chiedendosi se potesse combattere contro tanti uomini duri in uno spazio tanto limitato e sperare di vincere.
Prese posizione in un angolo, con la spada sguainata, ma essi non rallentarono la loro avanzata decisa e minacciosa. L’uomo pelato alzò il bastone, ovviamente pianificando di fargli cadere di mano la spada mentre gli altri lo atterravano, ma prima che potesse farlo, si udì dall’alto una voce tranquilla.
«Non lo farei se fossi in te, Shildo. È già carne di Hawklyn, marchiata e… non vedi com’è confuso? E sai quello che fa Hawklyn a chi si intromette!»
L’uomo pelato guardò in alto, il volto cattivo. «E chi gli direbbe che l’abbiamo fatto?»
Il giovane mago acquattato sul davanzale sorrise, muovendo la balestra avanti e indietro per minacciarli uno ad uno, e rispose: «Ciò è già stato fatto, zucca pelata. Poco fa Antaerl è volato a riferire. Mi ha lasciato qui a dissuaderti perché ha un vecchio debito con te… e si ricorda che cosa è successo l’ultima volta che una banda di rapitori ha preso l’uomo sbagliato. Non era piacevole, vero Shildo? Ricordi ciò che Undral aveva detto che ti avrebbe fatto se avessi commesso un altro errore sfortunato? Io sì».
Ringhiando, il gigante pelato girò sui talloni e se ne andò impettito, rompendo la riga di scagnozzi e facendo loro segno di accompagnarlo.
Quando non rimase più nessuno, Elminster alzò lo sguardo ed esclamò: «Grazie per avermi salvato. La mia vita è tua, Signor…?»
«Farl è il mio nome e non sono un “signore”. E ne vado orgoglioso».
Farl gli spiegò che «carne» era il nome dato agli zotici, agli schiavi e ad altri sfortunati utilizzati dai signori maghi per gli esperimenti che uccidevano, torcevano, trasformavano o rendevano schiava la mente. Elminster, evidentemente confuso e disorientato era sembrato un ottimo candidato al rapimento o già uno schiavo mentale. «È questo che gli ho fatto credere tu fossi», aggiunse.
«In ogni caso grazie», rispose El ironicamente. «Ma a che scopo?»
«L’ho avvertito che eri di proprietà del mago più potente. Shildo serve un rivale il cui potere non è ancora grande abbastanza per una sfida aperta. E a Shildo è stato categoricamente ordinato di non causare guai in questo momento». Scivolò sul davanzale innevato e aggiunse: «Vuoi mettere via quella spada? Potremmo andare in un luogo più caldo che conosco, dove ci faranno pagare troppo cara una zuppa di tartaruga bollente e toast bruciati… questo, ovviamente, se pagherai tu».
«Con piacere», rispose Elminster, «se mi dici dove posso trovare un letto in questa città e ciò che non devo fare».
«Sicuro», rispose il giovane sorridente, saltando abilmente dalla finestra. «Tu devi imparare e a me piace parlare. E sembra che tu abbia bisogno di un amico, e in questo momento gli amici scarseggiano anche per me… Ehi?»
«Guida tu», suggerì Elminster.
Aveva appreso molto quel giorno, e nei giorni che seguirono, ma non da dove venisse Farl. Il ladro allegro sembrava parte di Hastarl, come se fosse sempre stato lì, e la città riecheggiava dei suoi umori e dei suoi modi. I due si erano piaciuti e insieme avevano rubato più del loro stesso peso in oro e in gemme nel corso della lenta primavera e di gran parte dell’estate lunga e calda.
Meditando su quella città umida governata dai maghi, Elminster si trovò di nuovo sulla pietra inclinata del tetto della tomba, nel calore scemante di una lunga e pigra giornata estiva. Poi si voltò a guardare in faccia l’amico: «Più di una volta hai detto che sapevi che venivo da Heldon».
Farl annuì. «Il modo in cui parli: vieni dall’entroterra, sicuramente, da est. Inoltre… l’inverno in cui Undral si unì ai signori maghi, in città corse voce che per essere accettato da loro aveva cavalcato un drago che poteva comandare. Per ordine di Lord Hawklyn, andò al villaggio di Heldon per uccidere un uomo del luogo e la moglie… e per mostrare loro ciò che poteva fare fece distruggere il villaggio pietra su pietra e bruciò tutto, perfino i cani che fuggivano nei campi».
«Undral», ripeté a bassa voce Elminster.
Farl vide che le mani dell’amico erano intrecciate, bianche e tremanti. Annuì. «Se ti fa star meglio, El, capisco come ti senti».
Il giovane lo guardò con occhi fiammeggianti, di una luce blu acciaio, ma la sua voce giunse con tremenda delicatezza quando gli domandò: «Oh? E come?»
«I maghi hanno ucciso mia madre», rispose Farl con calma.
Elminster lo guardò, il fuoco nei suoi occhi svanì. «Che cosa è successo allora a tuo padre?»
Farl alzò le spalle. «Oh, sta sicuramente molto bene».
Elminster lo fissò con aria interrogativa e Farl abbozzò un sorriso triste. «Infatti probabilmente ora è lassù, su quella torre… e potrebbe possedere una magia che gli permetta di udirci quando userò il suo nome».
Elminster alzò lo sguardo verso la torre e domandò: «Può colpirci con un incantesimo da lassù?»
Farl scrollò le spalle. «Chissà che cosa hanno imparato a fare i maghi? Ma ne dubito, se no vedresti molti uomini cadere a terra in tutta Hastarl. Inoltre, i signori maghi non resisterebbero alla tentazione di provocare i loro nemici prima di sconfiggerli, faccia a faccia.»
«Allora fai il suo nome», lo incalzò deliberatamente Elminster, «e forse scenderà dove lo potrò raggiungere».
«Dopo di me», rispose Farl a bassa voce. «Dopo che gli avrò strappato la lingua alla radice e spezzato tutte le dita per fargli smettere di lanciare incantesimi… solo allora lascerò che tu ti diverta. Deve morire lentamente».
«Allora chi è?»
Farl sollevò metà bocca in un sorriso triste: «Lord Hawklyn, maestro signor mago. Per te il Mago Reale di Athalantar». Voltò quindi la testa per guardare un uccellino che balzava da una colonna rotta all’altra. «Ero illegittimo. Hawklyn fece uccidere mia madre – una cortigiana, amata da molti, dicono – quando apprese della mia nascita».