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«Sì», affermò il giovane Rhegaer, mentre giocherellava pigramente con un piccolo coltello, abbarbicato su una botte più alta di lui. Come sempre, era sporchissimo… ma lo era anche la botte, e un individuo che avesse sbirciato nella stanza non l’avrebbe certamente notato, se non fosse stato per lo scintillio della lama.

«Penso che stiate dicendo un sacco di fesserie», sbottò Klaern, «e ne ho abbastanza. Siete un branco di idioti se ascoltate questi due sognatori. Che cos’hanno oltre alla lingua sciolta?» Uscì dal suo angolo per scrutare la stanza, e come un’onda silenziosa i suoi fratelli si precipitarono dietro di lui, formando un muro di carne, solido e minaccioso. «Se ci dev’essere una banda per competere con i Moonclaw, allora io ne sarò a capo. Le “Mani di velluto”! Mentre questi due giovanotti profumati si pavoneggiano e si vantano, io e i miei fratelli vi renderemo ricchi… garantito».

«Oh?», una voce molto profonda risuonò da un angolo scuro. «E in che modo, Blaenbar, ci indurrai a fidarci di voi? Dopo avervi visti fare i prepotenti e i gradassi per le vie della città nelle ultime tre estati, tutto ciò che so di voi è che è saggio non voltarvi le spalle, per non ritrovarsi un coltello affilato nella schiena».

Klaern sogghignò. «Jhardin, tutti ad Hastarl sanno che sei forte come un bue, ma chiunque ti batterebbe in una gara d’astuzia. Che cosa sai di pianificazione, o…»

«Più di qualcosa», grugnì Jhardin. «Dalle mie parti “pianificazione” significa sempre che qualche furbo ha intenzione di ingannarmi».

«Perché non te ne torni a casa, allora?»

«Basta, Klaern», sbottò Farl con sdegno. «È certo che nessuno di noi si può fidare di te. Meglio che te ne vai».

L’uomo dalla criniera rossa si voltò verso di lui. «Hai paura di perdere il controllo di questa piccola banda di Zoccoli di Cavallo, eh? Bene, vediamo un po’… chi è dalla tua parte, qui?»

Elminster fece un silenzioso passo avanti.

«Sì, sì, sappiamo che il tuo amichetto sta con te… e fa anche tutto ciò che gli chiedi».

Mentre Blaenbar si abbandonava a una risata volgare, Jhardin avanzò pesantemente, lo sguardo duro. Rhegaer balzò leggiadramente giù dalla sua botte, e anche Chaslarla fece un passo avanti respirando affannosamente.

Klaern si guardò intorno. «Tassabra?»

La snella figura immersa nell’ombra avanzò lievemente ed esclamò con voce bassa, musicale: «Mi dispiace, Klaern. Anch’io sto dalla parte di Farl».

«Che gli dei vi maledicano, siete degli stupidi!» Klaern sputò sul pavimento, si voltò, e si incamminò impettito verso l’uscita, mentre i suoi fratelli taciturni, Korlar e Othkyn, indietreggiavano guardinghi per proteggere il suo passaggio.

«Pensavo che fosse il tuo amante», mormorò un altro uomo dall’oscurità.

«Stai attento, Larrin!» La voce di Tassabra era irritata. «Quel cinghiale in calore il mio amante? No, era soltanto un giocattolo».

Jhardin guardò Farl, il quale annuì. L’uomo enorme uscì dalla stanza, muovendosi silenziosamente, con una leggiadria sorprendente. Forse gli rimaneva meno tempo da vivere di quanto credesse. Farl fece un passo avanti. «Siamo tutti d’accordo, allora? Le Mani di Velluto iniziano questa sera stessa?»

«Sì», rispose con voce rauca Tarth, che aveva un occhio solo. «Io eseguirò i tuoi ordini».

«Anch’io», esclamò Chaslarla, muovendosi pesantemente, «a patto che non ti trasformi in un capo senza scrupoli, che si crede il vero padrone della città e ci manda in giro ad accoltellare guardie e maghi per tutta la notte».

Vi fu un mormorio di consenso generale. Farl sorrise e si inchinò. «Allora siamo d’accordo. Come primo lavoro insieme, usciamo di qui con le armi pronte, nel caso i Moonclaw ci attendano con le balestre, o abbiano informato una pattuglia su quando e dove aspettarci».

«Posso essere il primo a versare sangue?», domandò Rhegaer impazientemente.

Dietro di lui, si udì la risata sommessa di Tassabra. «Fa’ che il sangue non sia il tuo», esclamò in risposta. L’oscurità nascose lo sguardo che il giovane le lanciò… ma tutti poterono percepirlo, e ridacchiando scesero insieme le scale.

Tutti ad Hastarl sapevano che, quella stessa notte, le nobili famiglie di Athalantar, i Glarmeir e i Trumpettower si erano unite in matrimonio. Peeryst Trumpettower aveva indossato un cappello con lunghe piume e una giubba ricamata d’oro, confezionati apposta per l’occasione, una calzamaglia dal taglio svasato ed eleganti scarpe con la punta arrotolata. Con una spada leggera del padre assicurata alla cintura, sfilò insieme alla sua signora davanti ai templi di Sune, di Lathander, di Helm e di Tyche, prima di completare il rito sotto la spada di Tyr.

Il padre della sposa aveva donato alla coppia felice una statua raffigurante il Cervo di Athalantar impennato, scolpita in un unico enorme diamante, che valeva più di due o tre grandi castelli messi insieme, e aveva, del resto, un peso non indifferente, come ebbe modo di constatare il servo che la portò in giro tutto il giorno su un vassoio munito di cupola di vetro. Sotto pesante scorta, quel dono molto funzionale era stato installato nella camera nuziale, ai piedi del letto, dove, come affermò maliziosamente il vecchio Darrigo Trumpettower, «sarebbe stato in una posizione adatta da contemplare!»

Nanue Glarmeir aveva sfoggiato una meravigliosa tunica color blu cielo, confezionata dagli elfi del lontano Shantel Othreier; sua madre aveva orgogliosamente annunciato che era costata mille pezzi d’oro. Ora giaceva spiegazzata sul pavimento come il resto del «materiale da imballaggio» – come lo aveva definito Peeryst, in preda all’eccitazione – mentre la coppia di sposi novelli si apprestava a brindare con buon vino frizzante e si voltava verso la finestra per sollevare i bicchieri a Selûne, affinché potesse arridere al loro futuro. Il primo raggio di luce pallida era già penetrato dalla finestra e illuminava la statua del cervo, rampante e guardingo sul tavolo ai piedi del letto.

Né lo sposo né la sposa notarono le mani guantate che da sotto il letto si impadronirono svelte delle spille gemmate, che Nanue si era appena tolta facendo ricadere la sua chioma folta sulla schiena elegante (per il piacere mozzafiato di Peeryst). Entrambi, tuttavia, notarono invece l’improvvisa apparizione di un paio di stivali che coprirono la luna e mandarono in frantumi il vetro fine della grande finestra ad arco, seguiti dal loro proprietario: una donna con abiti di pelle nera attillati, un distintivo sul petto e una maschera nera che le copriva gli occhi.

L’aggraziata intrusa sorrise loro dolcemente, estrasse da uno stivale un pugnale dalla lama sottile come un ago, e si avvicinò al cervo. Nel mezzo di tutta quell’eccitazione, nessuno dei tre udì un sospiro esasperato provenire da sotto il letto.

«Urlate anche solo una volta», li avvertì sottovoce, «e assaggerete questa lama».

Prendendo spunto dall’idea, Nanue si mise a gridare, una sola volta. Un urlo lacerante. Frammenti di vetro caddero dal telaio della finestra con un acciottolio tintinnante.

La donna divenne scura in volto e corse attraverso la stanza, il pugnale pronto a colpire. Apparentemente da solo, uno sgabello accanto al letto si levò dal pavimento per colpirla in viso; la donna vacillò, perse l’arma, e cadde pesantemente di lato in un armadio, che lentamente e solennemente le si rovesciò addosso.

Nanue e Peeryst colsero coraggiosamente l’occasione e gridarono all’unisono.

Dabbasso, impellicciati e ingioiellati, i membri più anziani di entrambe le famiglie udirono il fracasso e le urla. Sorrisero maliziosamente e alzarono gli occhi al soffitto, poi brindarono alla salute degli sposi.

«Ah, sì», esclamò Darrigo Trumpettower, mentre lanciava un’occhiata birichina, attraverso il bicchiere, a una fanciulla Glarmeir, che aveva quasi la metà dei suoi anni, e allontanava i suoi baffi ispidi dal bicchiere di vino con uno sbuffo esperto. «Ricordo bene la mia notte di nozze… la prima, almeno; ero sobrio quella volta. Eravamo nell’Anno della Luna Mostruosa, mi ricordo che…»