Nel frattempo, Selûne si alzò serenamente sulle fiamme morenti di Heldon, immergendo le rovine in una luce scintillante, bianca come le ossa. Elminster non si volse a guardare indietro.
Si svegliò improvvisamente, nella fitta oscurità di una caverna, nella quale una volta si era nascosto mentre giocava a “cerca l’orco” con altri bambini. Ciò che rimaneva della Spada del Leone era adagiato sotto il suo corpo. Elminster rimase immobile ad ascoltare. Qualcuno aveva parlato molto vicino.
«Nessun segno di incursione… nessuno trafitto», mormorò una voce grave e forte. Elminster si irrigidì, e senza muovere un muscolo scrutò nell’oscurità.
«Suppongo che tutte le capanne abbiano preso fuoco da sole, dunque», affermò sarcasticamente la voce ancora più profonda di un altro uomo. «E il resto è cascato solo perché era stanco di stare in piedi, eh?»
«Basta, Bellard. Sono tutti morti, certo, ma non c’è traccia di spade o di frecce. I lupi hanno fatto la festa a qualche cadavere, ma nessuno è stato frugato. Ho trovato perfino un anello d’oro sulla mano di una donna…».
«Chi uccide col fuoco, allora… e abbatte le case?»
«I draghi», osservò un’altra voce, ancora più bassa e sinistra.
«Draghi? E non li abbiamo visti?» domandò beffarda la voce sarcastica.
«Lungo il Delimbiyr accade più di una cosa che non vedi, Bellard. Che cos’altro può essere stato? Un mago, sì… ma quale mago è tanto potente da bruciare case, mucchi di fieno, tratti di pascolo, nonché tutte le costruzioni in pietra?» Dopo un breve silenzio la voce continuò. «Bene, se riuscite a darmi un’altra risposta intelligente, parlate. In caso contrario, saccheggeremo solo all’alba, quando non ci potranno vedere dall’alto, senza allontanarci troppo dalla foresta».
«No! Non me ne starò qui seduto come una vecchietta mentre gli altri si impadroniscono del denaro e degli oggetti rimasti, per poi spartirmi gli scarti con i lupi».
«Vai allora, Bellard. Io resto qui».
«Sì, con le pecore».
«Certamente. Così ci sarà qualcosa da mangiare – oltre a qualche paesano abbrustolito – quando avrai terminato… o avevi per caso intenzione di portarle con te e di controllarle mentre scavi fra le rovine?»
Ci fu uno sbuffo di disgusto, e qualcuno rise.
«Helm ha ragione, come sempre, Bel. Ora taci; andiamo. Magari potrebbe prepararci la cena prima che faccia notte, se gli parlassi una volta tanto in tono gentile e la smettessi di agitare quella linguaccia tagliente… che cosa ne dici, Helm?»
La voce arcigna rispose: «Niente promesse. Il fumo potrebbe attrarre qualche bestia in agguato. Se qualcuno di voi, invece, trovasse un bel calderone – grande e robusto, mi raccomando – sarebbe tanto gentile da portarmelo, vero? Così potrò cucinare abbastanza cibo per tutti in una sola volta».
«E il tuo elmo puzzerebbe meno di fagioli per un po’, eh?»
«Esattamente. Non dimenticatelo».
«Non sprecherò le mie mani per una pentola», rispose Bellard scontroso, «se troverò monete e spade».
«No, no, testa dura, metti il tuo bottino nella pentola, no? In tal modo potrai portare più cose, giusto?»
Tutti ridacchiarono. «Ti ha fregato, Bel».
«Di nuovo».
«Sì, sbrighiamoci». Si udì un rumore di piedi strascicati e di pietre rotolate all’ingresso della caverna. Poi cadde il silenzio.
Elminster attese a lungo, ma udì solo il vento. Dovevano essersene andati tutti. Cautamente, si alzò, si stirò le membra irrigidite, e avanzò nell’oscurità, oltre l’angolo, finendo quasi infilzato dalla punta di una spada. L’uomo all’estremità opposta della lama domandò con calma: «E tu chi saresti, ragazzo? Sei scappato dal villaggio?» Indossava un’armatura di cuoio sbrindellata, guanti arrugginiti, un elmo ammaccato e graffiato, e aveva una barba folta e ispida. Da quella distanza, Elminster riusciva a sentire il fetore di un essere sudicio dentro un’armatura, la puzza di olio e di fumo di legno.
«Quelle sono le mie pecore, Helm», affermò tranquillamente. «Lasciatele stare».
«Tue? Per chi le raduni, se laggiù sono tutti morti?»
Elminster incontrò lo sguardo impassibile dell’uomo e si vergognò quando lacrime improvvise gli riempirono gli occhi. Balzò indietro, asciugandosi gli occhi, ed estrasse la Spada del Leone dal suo giustacuore.
L’uomo lo guardò con commiserazione ed esclamò: «Mettila via, ragazzo. Non avrei motivo di sfidarti, nemmeno se tu avessi una spada decente. Avevi parenti laggiù», continuò, facendo un cenno con la testa, senza mai levare gli occhi da Elminster, «a Heldon?»
«Sì», rispose El con voce lievemente tremolante.
«Dove andrai ora?»
Il ragazzo alzò le spalle. «Avevo intenzione di restare qui», ribatté con tono amaro, «e mangiare le pecore».
Gli occhi di Helm incontrarono quelli arrabbiati del giovane. «Allora dovrai cambiare i tuoi piani. Devo avanzartene una per far sì che te ne vada?»
El fu colto da una rabbia improvvisa. «Ladro!» ringhiò rabbiosamente, indietreggiando. «Ladro!»
L’uomo scrollò le spalle. «Mi hanno chiamato con nomi peggiori».
Elminster vide che le sue mani stavano tremando, allora le avvicinò alla parte anteriore del suo giustacuore, insieme alla spada. Helm gli sbarrava l’unica via d’uscita. Se ci fosse stato un sasso abbastanza grande…
«Non saresti tanto tranquillo se ci fossero i cavalieri di Athalantar nelle vicinanze! Ammazzano i briganti, lo sai», esclamò autoritariamente Elminster, mangiando le parole come aveva sentito fare a suo padre quand’era arrabbiato.
La risposta lo stupì. Si udì un improvviso strascicamento di stivali sulla roccia, e l’uomo lo afferrò improvvisamente per il bavero e lo sollevò. «Io sono un cavaliere di Athalantar, ragazzo, che ha prestato giuramento al Re Cervo in persona, che gli dei veglino su di lui. Se non ci fossero tanti dannati maghi giù ad Hastarl, che ci tiranneggiano con quei briganti assoldati che chiamano “guardie leali”, cavalcherei in un regno pacifico, e senza dubbio tu avresti ancora una casa, e la tua gente sarebbe ancora viva!»
I vecchi occhi grigi risplendettero di una rabbia pari a quella di Elminster. Il ragazzo deglutì, senza distogliere lo sguardo.
«Se sei un vero cavaliere», esclamò, «allora lasciami andare».
Cautamente, con una lieve spinta che allontanò entrambe, l’uomo lo lasciò. «Bene, allora, ragazzo… perché?»
Elminster estrasse di nuovo la sua mezza spada e la sollevò.
«La riconosci?», chiese con voce tremula.
Helm batté più volte le palpebre, scosse la testa e poi si irrigidì. «La Spada del Leone» esclamò aspramente. «Dovrebbe trovarsi nella tomba di Uthgrael. Come fai ad averla, ragazzo?» Allungò la mano per prenderla.
Elminster scosse il capo e infilò il pezzo di spada nel suo giustacuore. «Questa è mia, era di mio padre, e…» soffocò un nodo alla gola, e continuò «… e penso che sia morto con la spada in mano, ieri sera».
Lui ed Helm si fissarono a lungo negli occhi, poi El chiese curiosamente: «Chi è questo Uthgrael? Perché dovrebbe essere sepolto con la spada di mio padre?»
Helm lo guardò come se avesse tre teste, ed una corona su ciascuna di esse. «Ti risponderò, ragazzo, se mi dici il nome di tuo padre». Si sporse in avanti, gli occhi improvvisamente scuri e intensi.
Elminster si rizzò orgogliosamente e rispose: «Mio padre è, era, Elthryn Aumar. Tutti lo chiamavano il Signore senza corona di Heldon».
Helm rimase a bocca aperta: «Non… non dirlo a nessuno, ragazzo», esclamò rapidamente. «Hai sentito?»
«Perché?» domandò Elminster socchiudendo gli occhi. «So che mio padre era un uomo importante, e che…» Si interruppe, ma un attimo dopo, furioso per la sua debolezza, continuò: «… è stato ucciso da un mago con due bacchette magiche, a cavallo di un drago. Un drago rosso scuro». Il suo sguardo si incupì. «Non dimenticherò mai il volto di quell’uomo». Estrasse nuovamente quanto rimaneva della Spada del Leone, la agitò e aggiunse ferocemente: «Un giorno…»