«Uccidere chi?»
«Neldryn Hawklyn, probabilmente il più potente fra i signori maghi».
Elminster lo guardò con occhi grigio-blu improvvisamente fiammeggianti.
«Hai detto di non conoscere il nome di nessun mago! È questo ciò che un cavaliere di Athalantar chiama “verità”?»
Helm sputò di lato, nell’oscurità. «Verità?» Si protese. «Che cos’è la “verità”, ragazzo?»
Elminster si accigliò. «È quello che è», affermò freddamente. «Non conosco significati nascosti».
«La verità», rispose il cavaliere, «è un’arma. Ricordalo».
Per un attimo rimasero in silenzio, poi Elminster esclamò: «Va bene, ho imparato la tua bella lezione. Dimmi allora, o saggio cavaliere: a cos’altro di tutto quello che hai detto posso credere? Su mio padre e i miei zii?»
Helm soffocò un sorriso. Quando la voce di quel ragazzo diventava tranquilla, preannunciava pericolo. Meritava senz’altro una risposta leale. Il cavaliere rispose semplicemente: «Tutto. Per quanto ne so. Se sei ancora affamato di nomi dei quali vendicarti, aggiungi questi alla lista: Seldinor Stormcloak e Kadeln Olothstar, ma non conosco i loro volti e non li riconoscerei neppure se vi sbattessi il naso in una vasca da bagno di un postribolo».
Elminster guardò fisso l’uomo barbuto e puzzolente. «Non sei quello che pensavo fosse un cavaliere di Athalantar».
Helm lo guardò a sua volta. «Pensavi di vedere una brillante armatura, Principe? In groppa a un cavallo bianco alto quanto una casa? Maniere cortesi? Sacrifici nobili? Non in questo mondo, figliolo, non da quando è morta la Regina della Caccia».
«Chi?»
Helm sospirò e distolse lo sguardo. «Mi sono scordato che non conosci nulla del tuo regno. La Regina Syndrel Hornweather, tua nonna, la moglie di Uthgrael, e Signora di tutte le sue cacce al cervo». Guardò nell’oscurità e aggiunse a bassa voce: «Era la più bella donna che avessi mai visto».
Elminster si alzò improvvisamente. «Grazie di tutto, Helm Spadadipietra. Devo andarmene prima che i tuoi compagni lupi tornino dal saccheggio. Se gli dei lo vorranno, ci incontreremo ancora».
Helm sollevò lo sguardo. «Lo spero, ragazzo. E spero anche che ciò accada quando Athalantar sarà nuovamente libera dai signori maghi, e i miei “compagni sciacalli”, i veri cavalieri di Athalantar, potranno ancora cavalcare».
Helm protese le mani, in una il fiasco, nell’altra il pane.
«Va ad ovest, sulle Colline del Corno», spiegò frettolosamente, «e bada che nessuno ti veda. Viaggia al tramonto e all’alba, nei campi e nei boschi. Attento ai soldati di pattuglia. Là fuori, prima ti ammazzano e poi ti chiedono il tuo mestiere. Non dimenticare mai: le spade che i maghi pagano non sono cavalieri, oggi i soldati di Athalantar non hanno onore». Sputò e aggiunse: «Se incontri dei briganti di’ che ti manda Helm e che si possono fidare di te».
Elminster prese il pane e la fiaschetta. I loro occhi si incontrarono, e fece un cenno di ringraziamento col capo.
«Ricorda», continuò Helm, «non dire a nessuno il tuo vero nome e non fare domande stupide su principi e maghi. Fingi d’essere qualcun altro finché non verrà il momento della tua vendetta».
Elminster annuì. «I miei rispetti, Signor Cavaliere, e i miei ringraziamenti». Si voltò con tutta la solennità dei suoi dodici inverni e si avviò a grandi passi verso l’imbocco della caverna.
Il cavaliere lo seguì, sorridendo. Poi esclamò: «Aspetta, figliolo, prendi la mia spada; ne avrai bisogno. È meglio che tu tenga nascosta quell’elsa».
Il ragazzo si fermò e si voltò, cercando di celare l’emozione. Una spada tutta sua! «Tu che cosa userai?» chiese Elminster, afferrando l’arma semplice e pesante che gli porgevano le mani sudice del cavaliere. Seguì poi un tintinnio di fibbie e uno strusciare di pelle, e alla spada si aggiunse il fodero.
Helm si strinse nelle spalle. «Me ne procurerò un’altra. Si suppone che debba servire tutti i principi del regno con la mia spada, quindi…»
Elminster sorrise improvvisamente e agitò l’arma in aria, tenendola con entrambe le mani. Era tremendamente rassicurante; con quell’arma in pugno si sentiva potente. Diede una stoccata a un nemico immaginario e la punta della spada si sollevò un po’.
Helm gli fece un sorriso intenso: «Sì… prendila e va’!»
Elminster fece alcuni passi sul prato… poi si voltò e ricambiò il sorriso del cavaliere. Si girò nuovamente verso il pascolo illuminato dal sole, la spada rinfoderata cullata cautamente nelle sue mani, e si mise a correre.
Helm prese un pugnale dalla cintura e una pietra da terra, scosse il capo, e uscì a uccidere le pecore, chiedendosi quando avrebbe sentito parlare della morte del ragazzo. Il primo dovere di un cavaliere è ancora quello di far splendere il regno negli occhi dei ragazzini… altrimenti chi saranno i cavalieri di domani, e che ne sarà del regno?
A quel pensiero il suo sorriso scemò. Che cosa sarebbe stato di Athalantar?
2.
I Lupi d’Inverno
Sappi che lo scopo delle famiglie, almeno per i Morninglord, è quello di rendere ogni generazione migliore della precedente: più forte, magari, o più saggia; più ricca, o più abile. Alcuni hanno successo in uno di questi intenti; i migliori e i più fortunati riescono in più di uno. Ciò è il compito dei genitori. Il dovere di un governante consiste nel costruire, o mantenere, un regno che permetta a molti dei sudditi di migliorare, nel corso delle generazioni, sotto più aspetti.
Elminster era rannicchiato nel cuore gelido e bianco di una violenta bufera di neve, nel Martello d’Inverno, il mese crudele in cui uomini e pecore venivano trovati congelati, e i venti ululavano giorno e notte tra le Colline del Corno, sollevando turbini accecanti di neve sugli altipiani aridi. Correva l’Anno dei Maestri del Sapere, ma a Elminster ciò non importava minimamente. Gli importava invece il fatto che fosse un’altra stagione fredda, la quarta dall’incendio di Heldon e che si stava stancando di vivere in quel modo.
Una mano amichevole gli batté su una spalla ben imbottita, e lui ricambiò il gesto. Sargeth aveva una vista da falco; il suo tocco significava che aveva individuato la pattuglia attraverso la cortina di neve. El lo osservò raggiungere l’altra postazione e dare il segnale. I sei briganti, avvolti in numerosi strati di stoffa rubata o sottratta ai cadaveri, e somiglianti ai grassi golem striscianti dei racconti dell’orrore, uscirono dal calore del loro nascondiglio di neve, armeggiarono per sguainare le spade con mani coperte da spesse bende di stracci e s’incamminarono dondolando nella fenditura.
Il vento e la neve sferzavano violentemente i loro volti mentre scendevano nello spazio angusto fra le rocce. Engarl lottava per rimanere in piedi poiché le folate di vento strattonavano la sua lunga lancia. L’aveva presa a un soldato a cui non serviva più… Engarl l’aveva atterrato con una sassata prima che le foglie iniziassero a cadere.
I banditi scelsero le rispettive postazioni, si inginocchiarono nella coltre bianca, e cominciarono a scavare. La tempesta non accennava a smettere, e quando si acquattarono immobili, vennero ricoperti da un velo bianco, fino a sembrare semplici cumuli di neve nella bufera.