— Certo — dissi. Avevo dimenticato che Martin Sileno diceva la stessa cosa, verso la fine dei Canti. Quando avevo imparato il poema, quella parte mi era parsa poco sensata. Ora non aveva importanza. — Ma le alture scorificate sono ancora lì e potrebbe esserci anche qualche pericoloso tratto d’acqua rotta. O di vere e proprie cascate. Forse sarà impossibile attraversarle con la zattera.
Aenea annuì e ripose nel mio zaino il binocolo. — Se sarà impossibile, sarà impossibile — replicò. — Andremo a piedi e attraverseremo a nuoto il prossimo portale. Ma ripariamo velocemente la zattera e avanziamo il più possibile. Se vediamo rapide difficili, accostiamo alla riva più vicina.
— Potrebbe essere una scogliera, anziché una riva — obiettai. — Quella lava non promette niente di buono.
Aenea scrollò le spalle. — Allora ci arrampicheremo e continueremo a piedi.
Ammetto d’avere provato ammirazione per la bambina, quella sera. Sapevo che era sfinita, nauseata, sconvolta da qualche emozione che non capivo, e spaventata quasi a morte. Ma non l’avevo mai vista pronta a rinunciare.
— Bene — dissi — almeno lo Shrike è sparito. Buon segno.
Aenea si limitò a guardarmi. Ma cercò di sorridermi.
Le riparazioni richiesero solo venti minuti. Rifacemmo i legacci, spostammo sul davanti alcuni supporti centrali e stendemmo sul tavolato la microtenda per non bagnarci i piedi.
— Se dobbiamo viaggiare nel buio — disse Aenea — sarebbe bene rizzare di nuovo l’albero maestro con la lanterna.
— Sì — dissi. Avevo tenuto da parte un lungo palo proprio a quello scopo e ora lo inserii nell’apposita incavatura e lo legai. Usai il coltello per praticare un intaglio adatto al manico della lanterna. — L’accendo? — domandai.
— Ancora no — rispose Aenea, con un’occhiata al sole.
— D’accordo. Se andiamo a saltellare sulle rapide, ci conviene tenere negli zaini i bagagli e mettere le cose più importanti nelle sacche impermeabili. — Ci mettemmo subito all’opera. Nella mia sacca infilai una camicia di ricambio, una matassa di corda, la carabina al plasma piegata in due, la torcia laser e un’altra normale. Cominciai a mettere nello zaino il comlog e pensai: "Non serve a niente, ma non pesa molto" e me lo agganciai al polso. Nella clinica su Qom-Riyadh avevamo ricaricato il comlog, la torcia laser e le batterie delle torce normali.
— Tutto a posto? — dissi, pronto a spingere di nuovo la zattera nella corrente. Ora l’imbarcazione pareva davvero migliore, con il rivestimento sul pontone, gli zaini gonfi e legati al loro posto, la lanterna a prua.
— Pronta — disse Aenea.
A. Bettik annuì e si appoggiò alla pertica. Entrammo nel fiume.
La corrente era rapida, almeno venti o venticinque chilometri all’ora, e il sole, quando entrammo nella zona della lava, era ancora sopra l’orizzonte. Le rive diventarono ripide scogliere e ci trovammo a sobbalzare su increspature d’acqua bianca, uscendone ogni volta in piedi e asciutti; allora iniziai a esaminare le rive per trovare punti adatti ad accostare appena avessimo udito il rombo di una cascata o di rapide violente. Vidi alcuni punti… burroni e aree piatte… ma il terreno era visibilmente accidentato, più avanti. Notai che lì, nei burroni, c’era maggiore vegetazione… semprazzurri e sequoie rachitiche… e il basso sole dipingeva di vividi colori i rami più alti. Cominciavo a pensare di prendere dagli zaini il pranzo… o cena, o come volevamo chiamarlo… e di preparare qualcosa di caldo, quando A. Bettik annunciò: — Rapide più avanti.
Mi sporsi sul timone e guardai. Rocce nell’acqua, spuma, spruzzaglia. Gli anni da barcaiolo sul Kans mi aiutarono a valutare quel tratto di rapide. — Andrà tutto bene — dissi. — Tenetevi saldi sulle gambe e spostatevi un po’ più al centro, se gli scossoni aumentano. Spingete forte, quando dico di spingere. Il difficile sarà mantenere la prua dove vogliamo che vada, ma possiamo farcela. Se finite in acqua, nuotate verso la zattera. Ho una fune pronta. — Tenevo un piede sulla matassa di fune.
Non mi piacevano le scogliere di lava nera e i massi più avanti sulla destra, ma dopo quel tratto d’acqua rotta, il fiume pareva più ampio e più calmo. Se dovevamo affrontare solo quello, probabilmente avremmo potuto continuare anche di notte, usando la lanterna e la torcia laser per illuminare il percorso.
Tutt’e tre eravamo concentrati ad allineare la zattera nel modo giusto per entrare nelle rapide, cercando si scansare parecchi massi che emergevano dall’acqua spumeggiante, quando tutto ebbe inizio. Se non fosse stato per un mulinello che aveva fatto girare su se stessa la zattera due volte, tutto sarebbe finito prima che mi rendessi conto di che cosa accadeva. A dire il vero, fu quasi così.
Aenea gridava, divertita. Io ridevo. Perfino A. Bettik mostrava un sorriso. Le rapide poco pericolose fanno questo effetto, lo sapevo per esperienza personale. Le rapide di classe V di solito stampano sul viso della gente un rictus di terrore, ma uno sballottolio poco pericoloso come quello è divertente. Ci gridavamo suggerimenti: Spingi! Tutto a destra! Scansa quella roccia! Aenea era qualche passo alla mia destra, A. Bettik un po’ più in là a sinistra, ed eravamo stati appena afferrati dal mulinello a valle del grosso masso che avevamo scansato, quando alzai gli occhi e vidi l’albero maestro e la lanterna tranciati di colpo in vari pezzi.
Trovai il tempo d’esclamare: — Che diavolo? — e poi fui colpito da vecchi ricordi e da riflessi che immaginavo atrofizzati da anni.
In quel momento giravamo a sinistra. Gridai: — Giù! — con tutto il fiato che avevo nei polmoni, abbandonai il timone e mi tuffai contro le gambe di Aenea. Rotolammo giù dalla zattera e finimmo nell’acqua spumeggiante.
A. Bettik aveva reagito quasi all’istante e si era gettato carponi verso prua: il monofilo che aveva affettato come burro l’albero maestro e la lanterna di sicuro lo mancò di qualche millimetro. Emersi dall’acqua, raschiando con gli stivali i sassi e tenendo il braccio intorno al petto di Aenea, appena in tempo per vedere il monofilo sott’acqua tagliare in due la zattera e poi tagliarla di nuovo, mentre il mulinello faceva roteare i tronchi. I monofili sono invisibili, è ovvio, ma quella capacità di tagliare nettamente legno e metallo aveva una sola spiegazione. Avevo visto usare quel trucco contro dei miei commilitoni nella brigata sul continente Ursus; i ribelli avevano teso di traverso sulla strada i monofili, che avevano tagliato di netto l’autobus che portava in caserma trenta soldati di ritorno dal cinema in città, decapitandoli tutti.
Cercai di lanciare un grido d’avvertimento ad A. Bettik, ma l’acqua rumoreggiava e mi riempiva la bocca. Tentai d’afferrare un masso, lo mancai, strisciai i piedi contro il fondo e mi aggrappai al masso seguente. Mi si accartocciò lo scroto, al pensiero di quei maledetti fili sott’acqua, davanti al mio viso…
L’androide vide la zattera affettata per la terza volta e si tuffò nell’acqua bassa. La corrente lo rivoltò e A. Bettik alzò d’istinto il braccio sinistro, mentre con la testa finiva sott’acqua. Vi fu per un attimo una nebbia di sangue: il braccio era stato tagliato di netto poco sotto il gomito. A. Bettik sporse dall’acqua la testa, ma non gridò: con la destra afferrò uno scoglio aguzzo e si tenne aggrappato. Il braccio sinistro e la mano che ancora si contraeva furono spazzati a valle, fuori vista.
— Oh, Cristo! — gridai. — Maledetto… maledetto!
Aenea sporse dall’acqua la testa e mi guardò a occhi sgranati. Ma non era in preda al panico.
— Stai bene? — le gridai per superare il fragore delle rapide. Il monofilo taglia così nettamente che ci si può ritrovare senza una gamba e non rendersene conto per mezzo minuto.