Aenea annuì.
— Reggiti a me! — le urlai. Dovevo liberare il braccio sinistro. Lei si aggrappò: aveva la pelle già fredda per l’acqua gelida.
— Maledetto, maledetto, maledetto — ripetei, come se fosse un mantra, mentre con la sinistra frugavo nella sacca appesa a tracolla. La pistola era nella fondina, bloccata dalla coscia contro il fondo del fiume. Lì il fiume era poco profondo… meno di un metro, in alcuni punti… acqua appena sufficiente a tuffarci in cerca di copertura, quando il cecchino avesse iniziato a sparare. Ma non aveva importanza… il tentativo di tuffarci ci avrebbe spinti a valle, contro il monofilo.
Vedevo A. Bettik, aggrappato a costo della vita, otto metri più avanti. Alzò dall’acqua il braccio sinistro. Dal moncherino schizzava sangue. Vidi che l’androide faceva una smorfia e rischiava di perdere la presa, mentre il dolore cominciava a superare lo choc. "Gli androidi muoiono come gli uomini?" mi domandai. Scacciai quel pensiero. Il sangue di A. Bettik era d’un rosso acceso.
Scrutai le colate di lava e le distese di macigni, cercando uno scintillio degli ultimi raggi di sole su metallo. Poi sarebbe giunto il proiettile del cecchino, o la scarica di plasma. Non l’avremmo udito. Era una magnifica imboscata, proprio da manuale. E io avevo letteralmente pilotato tutti noi per finirci dentro.
Trovai nella sacca la torcia laser, richiusi la sacca e afferrai con i denti la torcia. A tentoni, con la sinistra mi slacciai la cintura e la tirai fuor d’acqua. Rivolsi a Aenea cenni frenetici per indicarle di prendere la pistola.
Sempre appesa col braccio sinistro al mio collo, lei aprì la fondina ed estrasse la pistola. Sapevo che non l’avrebbe mai usata, ma al momento questo non contava: mi serviva la cintura. Ressi col mento la torcia laser e con la sinistra raddrizzai la cintura.
— Bettik! — chiamai.
L’androide guardò dalla nostra parte. I suoi occhi tradivano la sofferenza. — Prendila! — gridai, lanciandogli la cintura di cuoio. Andai a rischio di perdere la torcia laser, ma riuscii ad afferrarla mentre colpiva l’acqua e la tenni stretta nella sinistra.
L’androide non poteva staccare dalla roccia la destra. Non aveva più la sinistra. Ma usò il moncherino sanguinante e il petto per bloccare la cintura. Il lancio era stato perfetto… ma avevo un’unica possibilità, dovevo azzeccarlo.
— Medipac! — gridai, indicando con la testa la sacca che galleggiava dietro di me. — Per ora, laccio emostatico!
Non credo che mi abbia udito, ma non ce n’era bisogno. Si tirò contro la roccia e si sistemò sul lato a monte; poi si legò la cintura intorno al braccio e con i denti la strinse. Non c’era un buco, così vicino alla fibbia, ma A. Bettik con uno scatto della testa strinse la cintura, l’avvolse di nuovo e tornò a stringerla.
Intanto avevo acceso la torcia laser, avevo messo il raggio al massimo di diffusione e lo facevo passare qua e là sopra il fiume.
Il cavo era di monofilo, ma non di monofilo superconduttore. Quest’ultimo non avrebbe brillato. Quello invece luccicò. Una rete di monofili scaldati dal laser, di un rosso smorto, come una quadrettatura di raggi, si estendeva su tutto il fiume. A. Bettik era passato sotto alcuni monofili. Altri sparivano nell’acqua, alla sua destra e a sinistra. I primi erano tesi circa un metro davanti ai piedi di Aenea.
Mossi il raggio, illuminando la zona sopra di noi e all’intorno. Lì niente luccicava. I monofili sopra A. Bettik brillarono per alcuni secondi, il tempo di dissipare il calore, e svanirono come se non fossero mai esistiti. Sventagliai di nuovo il raggio su di essi, riportandoli in esistenza, poi commutai su un raggio più forte. Il monofilo che miravo divenne incandescente, ma non si fuse. Non era superconduttore, ma non sarebbe svanito per la poca energia che potevo riversarvi con una torcia laser.
"Dov’è il cecchino?" pensai. Forse si trattava solo di una trappola passiva. Vecchia di anni. Nessuno in agguato.
Non ci credetti neppure per un secondo. Vedevo A. Bettik reggersi con difficoltà alla roccia: la corrente cercava di portarlo via.
— Merda! — dissi. Infilai nei calzoni la torcia laser e con la sinistra afferrai Aenea. — Reggiti forte.
Con il braccio destro mi tirai più in alto sul masso scivoloso. Era di forma triangolare e molto viscido. M’incuneai nel lato a monte e tirai lì Aenea. La corrente pareva riempirmi di bastonate tutto il corpo. — Ce la fai a reggerti? — gridai.
— Sì! — Aenea era cerea in viso. Aveva i capelli incollati alla testa, escoriazioni sulla guancia e sulla tempia, un livido sul mento, ma nessun segno di ferite gravi.
Le diedi un colpetto sulla spalla, mi assicurai che stringesse bene la roccia e la lasciai. A valle vedevo ancora la zattera, ora tagliata in una decina di parti, rotolare nella curva d’acqua spumeggiante accanto alle scogliere di lava.
Urtando e raschiando il fondo, cercando di stare in piedi, ma spazzato e colpito dalla corrente, riuscii a urtare la roccia di A. Bettik senza far cadere lui e senza farmi portare oltre. Mi afferrai a lui e mi tenni aggrappato, notando che le rocce aguzze e la corrente gli avevano quasi strappato di dosso la camicia. Il sangue colava da una decina di lacerazioni della pelle azzurra, ma io volevo vedere il braccio sinistro. A. Bettik gemette, quando gli tolsi dall’acqua il braccio.
Il laccio emostatico frenava la fuoruscita di sangue, ma non bastava a bloccarla. Il sangue turbinava nell’acqua. Pensai agli squali arcobaleno di Mare Infinitum e rabbrividii.
— Vieni — dissi, quasi sollevandolo, staccandogli dalla roccia la mano gelata. — Ce ne andiamo.
L’acqua mi arrivava solo alla cintola, ma aveva la forza di parecchie manichette antincendio. In qualche modo, malgrado lo choc e la grave perdita di sangue, A. Bettik mi aiutò. I nostri stivali strisciarono le rocce aguzze del letto del fiume.
"Dov’è il cecchino?" mi domandai. Le scapole mi dolevano per la tensione.
La riva più vicina era alla nostra destra: una sporgenza piatta ed erbosa, l’ultimo posto facile da raggiungere, per quel che vedevo a valle del fiume. Un posto invitante. Troppo invitante.
E poi Aenea era ancora aggrappata alla roccia, otto metri più a monte.
Avvinghiati, con il braccio buono di A. Bettik sulla mia spalla, barcollando, procedendo a scatti, per metà nuotammo e per metà strisciammo a monte, mentre l’acqua ci colpiva e ci schizzava il viso. Quando arrivammo alla roccia, ero mezzo cieco. Le dita di Aenea erano livide per il freddo e per lo sforzo.
— La riva! — gridò Aenea, mentre l’aiutavo a reggersi in piedi. Il primo passo ci fece finire in una buca e la corrente batté contro il petto e il collo della bambina, le ricoprì il viso di spuma bianca.
Scossi la testa. — A monte! — gridai e tutt’e tre cominciammo a fare forza contro la corrente, con l’acqua che ci colpiva e ci schizzava ai lati. Solo la mia forza maniacale in quel momento ci tenne in piedi e ci consentì di procedere. Ogni volta che la corrente minacciava di farci cadere e di tirarci sott’acqua, immaginavo d’essere solido come l’Albero Mondo che un tempo si levava a sud, con le radici che correvano in profondità nel letto roccioso. Tenevo d’occhio un tronco caduto, forse venti metri sulla riva destra. Se avessimo potuto ripararci dietro quel tronco… Dovevo applicare a A. Bettik il laccio emostatico del medipac entro qualche minuto, lo sapevo, altrimenti l’androide sarebbe morto. Se ci fossimo fermati lì in mezzo al fiume, avremmo rischiato che la corrente portasse via il medipac, la sacca e tutto il resto. Ma non volevo rimanere esposto su quell’invitante sporgenza erbosa…
"Monofili" pensai. Tolsi dalla cintura la torcia laser e illuminai il fiume a monte. Non c’erano cavi. "Ma potrebbero essere sott’acqua, in attesa di mozzarci le caviglie."
Cercando di tenere a freno la mia immaginazione, trascinai controcorrente me stesso e gli altri. La torcia laser era scivolosa. La stretta di A. Bettik sulla mia spalla diventava sempre più debole. Aenea si teneva avvinghiata al mio braccio sinistro come se fosse la sua unica àncora di salvezza. Era davvero la sua unica àncora.