— Per questo gli androidi hanno la pelle azzurra?
— No, signore. Abbiamo pelle azzurra perché al tempo della nostra biocostruzione nessuna razza umana era di quel colore e i progettatori ritenevano d’estrema importanza che fosse possibile distinguerci a occhio dagli esseri umani.
— Non ti consideri umano?
— No, signore. Mi considero androide.
Sorrisi per la mia ingenuità. — Continui a svolgere prestazioni tipiche dei servi — dissi. — Eppure da secoli la schiavitù androide è stata dichiarata illegale in tutta l’Egemonia.
A. Bettik rimase in silenzio.
— Non vorresti essere libero? Una persona a buon diritto indipendente?
A. Bettik si accostò al letto. Pensai che si sarebbe seduto, ma lui si limitò a piegare e ammucchiare i vestiti che avevo indossato poco prima. — Signor Endymion — disse poi — dovrei farle notare che, per quanto le leggi dell’Egemonia siano morte con l’Egemonia, ormai da alcuni secoli mi ritengo persona libera e indipendente.
— Però tu e gli altri lavorate per il signor Sileno, qui, di nascosto — insistetti.
— Sì, signore. Ma lo faccio per libera scelta. Sono stato progettato per servire la razza umana. Faccio bene il mio lavoro. E ne traggo soddisfazione.
— Allora sei rimasto qui di tua spontanea volontà.
A. Bettik annuì con un breve sorriso. — Sì, nei limiti del libero arbitrio di ciascuno di noi, signore.
Con un sospiro mi staccai dalla finestra. Ormai fuori era buio pesto. Immaginai che fra non molto sarei stato chiamato a cena dal vecchio poeta. — E continuerai a stare qui e a badare al vecchio fino alla sua morte — dissi.
— No, signore — replicò A. Bettik. — Se sarà chiesto il mio parere sulla faccenda.
Esitai, sorpreso. — Davvero? E dove andrai, se sarai consultato in proposito?
— Se accerterà la missione che il signor Sileno le ha offerto, signore — disse quell’uomo dalla pelle azzurra — sceglierei di venire con lei.
Quando fui accompagnato di sopra, scoprii che quel piano non era più la camera d’un malato, ma era stato trasformato in una sala da pranzo. La poltrona di flussoschiuma a cuscino d’aria era scomparsa, i monitor medici erano svaniti, i quadri comando per le trasmissioni non si vedevano e il soffitto era aperto al cielo. Con l’occhio addestrato dell’ex pastore localizzai subito le costellazioni del Cigno e delle Due Gemelle. Davanti a ogni finestra di vetro colorato c’erano bracieri posti su alti tripodi, le cui fiamme davano alla sala altra luce e calore. Al centro della stanza c’era un tavolo da pranzo lungo tre metri. Porcellane, argenteria e cristallerie risplendevano alla guizzante luce di candele poste in due candelabri lavorati. Alle estremità del tavolo erano apparecchiati due posti. In quello più lontano, Martin Sileno era già accomodato su di una sedia dall’alto schienale.
Il vecchio poeta era a stento riconoscibile, pareva essersi liberato di vari secoli in poche ore. Da una sorta di mummia con pelle di pergamena e occhi infossati, si era trasformato in un normale anziano signore… affamato, a giudicare dalla luce che gli brillava negli occhi. Mentre mi avvicinavo, notai le sottili cannule delle fleboclisi e i filamenti dei monitor che serpeggiavano sotto il tavolo; ma, per il resto, l’illusione di una persona riportata in vita dal regno dei morti era perfetta.
Nel vedere la mia espressione, Sileno ridacchiò. — Questo pomeriggio mi hai sorpreso nel momento peggiore, Raul Endymion — gracchiò. La sua voce era ancora roca per l’età, ma molto più energica di prima. — Mi stavo ancora riprendendo dal gelido sonno — proseguì il poeta. Con un gesto m’invitò ad accomodarmi all’altro capo del tavolo.
— Crio-fuga? — dissi scioccamente, mentre aprivo il tovagliolo di lino e me lo sistemavo in grembo. Da anni non cenavo a un tavolo così elegante: il giorno del congedo dalla Guardia Nazionale ero andato dritto al migliore ristorante della città portuale di Gran Chaco, nella parte meridionale dell’Artiglio, e avevo ordinato i più raffinati piatti del menu, spendendo l’intera paga dell’ultimo mese. Ne era valsa la pena.
— La merdosa crio-fuga, certo — disse il vecchio poeta. — Come credi che passo questi decenni? — Ridacchiò di nuovo. — Mi occorrono alcuni giorni per riprendermi dallo scongelamento. Non sono giovane come una volta.
Presi fiato. — Se non sono indiscreto — dissi — quanti anni ha?
Il poeta non badò alla domanda e chiamò l’androide maggiordomo (non A. Bettik), che fece un cenno in direzione della scala. Entrarono altri androidi e iniziarono in silenzio a servire le portate. Mi riempirono il bicchiere per l’acqua. A. Bettik mostrò al poeta una bottiglia di vino, aspettò l’assenso e poi eseguì il rituale, offrendogli il tappo e un assaggio. Martin Sileno rigirò sulla lingua il vino d’annata, deglutì, emise un borbottio. A. Bettik lo ritenne d’approvazione e versò il vino a lui e a me.
Arrivarono gli antipasti, due per ciascuno. Riconobbi lo yakitori di pollo cotto a fuoco vivo e il tenero carpaccio di manzo del Maine con ruchetta. In aggiunta, Sileno si servì di foie gras sauté avvolto in foglie di mandragora, sistemato sul tavolo accanto a lui. Presi lo spiedino di metallo decorato e assaggiai lo yakitori. Era squisito.
Martin Sileno poteva anche avere ottocento o novecento anni, era forse il più vecchio essere umano vivente… ma ne aveva, di appetito, quel vecchio strambo! Vidi luccicare denti bianchi e perfetti, mentre il poeta attaccava il carpaccio, e mi domandai se quelle nuove aggiunte erano protesi dentarie o sostituzioni ARN. Probabilmente queste ultime.
Mi accorsi d’avere una gran fame. Evidentemente la pseudorisurrezione o l’esercizio fisico per arrampicarmi fino alla finestra della torre mi avevano stimolato l’appetito. Per alcuni minuti non ci fu conversazione, solo il lieve fruscio di passi degli androidi che servivano a tavola, lo scoppiettio delle fiamme nei bracieri, un occasionale refolo di brezza notturna dall’alto e il rumore delle nostre mascelle.
Mentre gli androidi portavano via i piatti degli antipasti e servivano scodelle di bisque di cozze, nera e fumante, il poeta disse: — Ho saputo che oggi hai fatto conoscenza della nostra nave.
— Sì — dissi. — Era proprio la nave privata del Console?
— Naturalmente — rispose Sileno. Rivolse un gesto a un androide. Fu messo in tavola pane ancora caldo di forno. Il suo profumo si mescolò con il vapore della bisque e con l’aroma di fogliame autunnale portato dalla brezza.
— E lei si aspetta che usi quella nave per salvare la bambina? — domandai. Pensavo che a quel punto il poeta mi avrebbe domandato quale decisione avessi preso.
Lui disse invece: — Cosa pensi della Pax, signor Endymion?
Sorpreso, rimasi col cucchiaio a mezz’aria. — La Pax? — ripetei.
Sileno attese in silenzio.
Posai il cucchiaio e mi strinsi nelle spalle. — Non mi pare d’averci pensato molto.
— Neppure dopo che un suo tribunale ti ha condannato a morte?
Invece di esporre ciò che avevo pensato poco prima, cioè che non era stata l’influenza della Pax a condannarmi, ma quella sorta di giustizia di frontiera che veniva applicata su Hyperion, risposi: — No. La Pax in pratica non ha influenzato molto la mia vita.
Il vecchio poeta annuì e sorseggiò la bisque. — E la Chiesa?
— In che senso?
— Anche la Chiesa non ha influenzato molto la tua vita?
— No, direi. — Mi accorsi di fare la figura dell’adolescente impacciato, ma le domande parevano meno importanti di quella che in teoria avrebbe dovuto rivolgermi e della risposta che avrei dovuto dargli: la mia decisione.