L’ammiraglio Marusyn ridacchia. — Ci rendiamo conto che si troverà un po’ fuori del suo campo, Padre Capitano de Soya, ma le assicuriamo che è necessaria la qualifica di comandante. Barnes-Avne continuerà a comandare le forze di fanteria per quanto riguarda le attività quotidiane, ma è d’assoluta importanza che ogni risorsa sia volta al salvataggio della bambina.
De Soya si schiarisce la voce. — Cosa accadrà a… Ha detto che non ne conosciamo il nome? Alla bambina, voglio dire.
— Prima di scomparire — interviene il cardinale Lourdusamy — si faceva chiamare Aenea. In quanto a ciò che le accadrà… le garantisco ancora, figliolo, che vogliamo solo impedire alla bambina d’infettare col suo virus il Corpo di Cristo nella Pax, ma che agiremo senza nuocerle. Anzi, la nostra missione… la sua missione… è di salvare l’anima immortale della bambina. Lo stesso Santo Padre provvederà a questo.
Qualcosa, nel tono del cardinale, induce de Soya a ritenere che l’incontro sia terminato. Il Padre Capitano si alza, sente dentro di sé un senso di vertigine dovuto al dislocamento da risurrezione. "Nel giro di questo stesso giorno devo morire di nuovo!" pensa. Ancora pieno di gioia, si sente nondimeno sul punto di piangere.
Anche l’ammiraglio Marusyn è in piedi. — Padre Capitano de Soya, la sua nuova assegnazione ha effetto finché la bambina non sarà consegnata a me, qui nell’ufficio collegamento militare del Vaticano.
— Nel giro di qualche settimana, ne siamo sicuri — precisa il cardinale Lourdusamy, ancora seduto.
— Si tratta di una grande e terribile responsabilità — riprende l’ammiraglio. — Deve usare fino all’ultimo grammo della sua fede e delle sue doti, per realizzare l’espresso desiderio di Sua Santità e portare al sicuro nel Vaticano quella bambina… prima che il distruttivo virus della sua perfidia programmata si diffonda tra i nostri Fratelli e Sorelle in Cristo. Sappiamo che non ci deluderà, Padre Capitano de Soya.
— Grazie, signore — dice de Soya. "Perché proprio io?" pensa di nuovo. S’inginocchia per baciare l’anello al cardinale e si rialza: scopre che l’ammiraglio si è ritirato nel buio del padiglione, dove le altre figure appena intraviste non si sono mai mosse.
Monsignor Luca Oddi e il capitano Marget Wu si pongono ai fianchi di de Soya e fungono da scorta, quando si girano per lasciare il giardino. Ed è allora che il Padre Capitano de Soya, con la mente che ancora vacilla per la confusione e lo sconvolgimento, con il cuore che batte forte per l’ansia e per il timore dell’importante missione richiestagli, si guarda brevemente indietro, proprio mentre la scia di plasma di una navetta in decollo illumina di pulsante luce azzurrina la cupola di S. Pietro, i tetti del Vaticano, il giardino. Per un istante risultano chiaramente visibili le figure nel padiglione, illuminate dal lampeggio azzurro. C’è l’ammiraglio Marusyn, già di spalle rispetto a de Soya, al pari di due ufficiali delle Guardie Svizzere in armatura da combattimento, con le armi a fléchettes in posizione di portat’arm. Ma è la figura seduta, quella che per anni a venire tormenterà i sogni e i pensieri di de Soya.
Sulla panchina, con lo sguardo triste puntato su de Soya che si allontana, con l’alta fronte e i lineamenti dall’aria afflitta dipinti per un attimo, ma indelebilmente, di luce azzurrastra, siede Sua Santità, Papa Giulio XIV, il Santo Padre per più di seicento miliardi di fedeli cattolici, l’effettivo sovrano per altri quattrocento miliardi di anime sparse nella sconfinata Pax, l’uomo che ha appena spinto de Soya in quella fatidica missione.
10
La mattina dopo la cena eravamo di nuovo nella nave spaziale. Per essere precisi, l’androide A. Bettik e io eravamo nella nave, raggiunta nel modo più comodo, usando il tunnel che collegava le due torri, mentre Martin Sileno era presente come ologramma. Un’immagine olografica bizzarra, perché il vecchio poeta aveva deciso che il trasmettitore, o il computer della nave, lo rappresentasse in una versione più giovane: sempre un antico satiro, ma in grado di reggersi sulle gambe e dotato di chioma e di orecchie appuntite. Indossava un mantelletto marrone, camicia a maniche lunghe, calzoni a sbuffo, berretto floscio. Guardandolo, mi resi conto di quale damerino fosse stato, quando quegli abiti erano di moda. Fui sicuro che Martin Sileno avesse avuto quell’aspetto, quando era tornato su Hyperion come pellegrino, tre secoli prima.
— Vuoi continuare a fissarmi a bocca aperta come un merdoso bifolco, o ti decidi a terminare il cazzo di giro, così possiamo proseguire con gli affari? — disse l’immagine olografica. Il vecchio mostrava i postumi del vino bevuto la sera prima o aveva ritrovato abbastanza salute da sfoggiare un umore più pestifero del solito.
— Faccia strada — dissi.
Dal tunnel avevamo preso l’ascensore della nave per la camera stagna inferiore. A. Bettik e l’ologramma del poeta mi precedettero su per i vari piani: la sala motori con la sua indecifrabile strumentazione e la rete di tubi e di cavi; poi il ponte per il sonno criogenico… quattro cuccette di crio-fuga in cubicoli super raffreddati (ne mancava una, scoprii: quella che Martin Sileno aveva prelevato per uso personale); poi il corridoio del portello stagno centrale, dal quale ero entrato il giorno prima… le pareti di "legno" celavano un gran numero di armadi ripostiglio con roba tipo tute spaziali, veicoli fuoristrada, aerociclette, perfino alcune armi antiquate; poi la zona soggiorno, con lo Steinway e la piazzola olografica; poi di nuovo su per la scala a chiocciola, in quella che A. Bettik chiamò la "sala di navigazione" (e infatti c’era un angolino dove si vedevano alcuni strumenti elettronici per la navigazione), ma che ritenni una biblioteca, con scaffali su scaffali di libri… libri veri, stampati… e poltrone e divanetti lungo le finestre; e infine su in punta alla nave, una semplice stanza circolare con un solo letto al centro.
— Al Console piaceva guardare da qui le perturbazioni atmosferiche, mentre ascoltava musica — disse Martin Sileno. — Nave?
Le paratie della stanza circolare erano trasparenti, come la prua della nave più in alto. Intorno a noi si vedevano solo le pietre scure della torre, ma dall’alto filtrava la luce, grazie al malandato soffitto del silo. Una musica in sordina riempì all’improvviso la stanza. Pianoforte, senza accompagnamento. La melodia era antica e ossessionante.
— Czerchyvik? — domandai, tirando a indovinare.
Il vecchio poeta sbuffò. — Rachmaninoff — disse. I suoi lineamenti da satiro parvero ingentilirsi di colpo nella tenue luce. — Riesci a indovinare chi è al piano?
Ascoltai con attenzione. Il pianista era assai bravo. Non avevo idea di chi fosse.
— Il Console — disse A. Bettik, a voce molto bassa.
Martin Sileno borbottò qualcosa. — Nave… opaco — ordinò. Le pareti parvero solidificarsi. L’ologramma del poeta scomparve dalla posizione accanto alla paratia e si materializzò vicino alla scala a chiocciola. Sileno aveva la mania di quei trasferimenti improvvisi che creavano un effetto sconcertante. — Bene — disse — se abbiamo finito questo cazzo di giro, scendiamo in soggiorno e studiamo come battere in astuzia la Pax.
Le mappe erano del vecchio tipo, inchiostro su carta, ed erano aperte sulla lucida parte superiore del pianoforte a coda. Il continente Aquila allargava le ali sopra la tastiera e la testa di cavallo di Equus si arricciava più in alto, come mappa separata. L’ologramma di Martin Sileno avanzò su gambe robuste e puntò il dito all’incirca nel punto dove si sarebbe trovato l’occhio del cavallo. — Qui — disse. — E qui. — Il dito privo di massa non fece rumore sulla carta. — Il Papa ha portato le sue merdose truppe per tutta la strada da Castel Crono, qui… — il dito si piantò dove la catena montuosa della Briglia toccava il punto più orientale dietro l’occhio — giù fino al muso. Hanno velivoli qui, nella maledetta città di re Billy il Triste… — il dito batté un punto qualche chilometro a nordovest delle Tombe del Tempo — e hanno ammassato le Guardie Svizzere nella valle stessa.