Esitai, li scrutai a occhi socchiusi. — A meno che non ci sia qualche altra cosa di cui mi avete tenuto all’oscuro…
— Certo che c’è — disse Martin Sileno. Riuscì a rivolgermi uno stanco sorriso da satiro. — Certo che c’è.
— Portiamo il tappeto alla finestra della torre — disse A. Bettik. — Dovrà imparare a manovrarlo.
— Adesso? — dissi piano. Già sentivo il cuore martellare.
— Adesso — confermò Martin Sileno. — Dovrai essere già esperto nel manovrarlo, domani alla partenza, ore zero-tre-zero-zero.
— Sul serio? — replicai, fissando il leggendario tappeto e provando una crescente sensazione del tipo: "È tutto vero… forse domani sarò morto".
— Sul serio — confermò Martin Sileno.
A. Bettik disattivò il tappeto e lo arrotolò. Seguii l’androide giù per la scaletta a chiocciola, nel corridoio, sulla scala della torre. Fuori il sole splendeva. Mio Dio, pensai, mentre l’androide srotolava il tappeto sul davanzale di pietra e lo riattivava. C’era sempre un bel salto, fino alle pietre del cortile. Mio Dio, pensai di nuovo, sentendo nelle orecchie le mie stesse pulsazioni. Non c’era traccia dell’ologramma del vecchio poeta.
A. Bettik mi invitò a salire sul tappeto librato a mezz’aria. — Verrò con lei per il primo volo — disse con calma. La brezza fece frusciare le foglie del vicino chalma.
Mio Dio, pensai per l’ultima volta. Mi arrampicai sul davanzale e da lì sul tappeto volante.
11
Esattamente due ore prima che la bambina emerga, come previsto, dalla Sfinge, nello skimmer di comando del Padre Capitano de Soya suona l’allarme.
«Rilevato velivolo, rotta uno-sette-due nord, velocità due-sette-quattro chilometri, quota quattro metri» dice la voce del controllore del perimetro difensivo della FCO, dalla nave Tre-C in orbita seicento chilometri più in alto. «Distanza dell’intruso, 570 chilometri.»
— Quattro metri? — dice de Soya, con un’occhiata al comandante Barnes-Avne, una donna minuta, dai capelli rossi, seduta di fronte a lui al pannello del comandante in capo, posto a mezza nave dello skimmer.
— Procede a bassa quota per sfuggire al rilevamento — dice la donna. I suoi capelli sono quasi invisibili sotto il casco da combattimento. Nelle tre settimane da che la conosce, de Soya non l’ha mai vista sorridere. — Visore tattico — prosegue la donna. Ha già abbassato il proprio. De Soya la imita.
Sul visore il puntino luminoso è nelle vicinanze della punta meridionale di Equus; dalla costa si muove verso nord. — Perché non l’abbiamo visto prima? — domanda de Soya.
— Potrebbe essere appena partito — risponde Barnes-Avne. Controlla l’attrezzatura da combattimento nell’ambito del display tattico. Dopo la prima, difficile ora in cui de Soya è stato obbligato a presentare il diskey papale per convincere la donna che il comando del fior fiore delle brigate della Pax doveva passare a un semplice capitano d’astronave, Barnes-Avne ha fornito la massima collaborazione. Naturalmente de Soya ha lasciato a lei le operazioni d’ordinaria amministrazione. Molti capitani della brigata di Guardie Svizzere credono che de Soya sia un semplice ufficiale di collegamento del Vaticano. De Soya non se ne cura. Pensa solo alla bambina; fintanto che le forze di fanteria sono ben comandate, non bada molto ai particolari.
— Nessun contatto visivo — dice Barnes-Avne. — Tempesta di polvere. Sarà qui prima dell’ora S.
"Ora S" è il termine che ormai da mesi i soldati usano per indicare il momento in cui la Sfinge si aprirà. Solo alcuni ufficiali sanno che una bambina è il centro di tutta quella potenza di fuoco. Le Guardie Svizzere non brontolano, ma poche apprezzano un’assegnazione così provinciale, lontano dai combattimenti, in un ambiente così sabbioso e disagevole.
«Il contatto continua verso nord, uno-sette-due, velocità adesso due-cinque-nove chilometri, quota tre metri» comunica il controllore, dalla Tre-C. «Distanza 570 chilometri.»
— È ora di abbatterlo — dice Barnes-Avne sul canale comando limitato a lei e a de Soya. — Raccomandazioni?
De Soya alza gli occhi. In quel momento lo skimmer vira verso sud. Fuori delle torrette a occhio di mantide, l’orizzonte s’inclina e le bizzarre Tombe del Tempo passano a mille metri sotto di loro. A sud il cielo è una banda opaca giallomarrone. — Colpirlo dall’orbita? — propone de Soya.
Barnes-Avne annuisce, ma sceglie un’altra soluzione. — Lei è abituato al lavoro delle navi torcia. Facciamo intervenire una squadra. — Col guanto di comando tocca alcuni puntini rossi nella punta meridionale del perimetro difensivo. «Sergente Gregorius?» È passata sulla banda a raggio compatto del canale tattico.
«Comandante?» La voce del sergente è profonda e imbarazzata.
«Sta seguendo sui monitor il velivolo non identificato?»
«Affermativo, comandante.»
«Lo intercetti, lo identifichi e lo distrugga.»
«Affermativo, comandante.»
De Soya rimane a guardare, mentre le telecamere della Tre-C zumano il deserto. A un tratto cinque sagome umane paiono alzarsi dalle dune; il loro polimero camaleonte si affievolisce, mentre si alzano sopra la nube di polvere. In un pianeta normale volerebbero con repulsori EM; su Hyperion portano i più ingombranti zaini a reazione. I cinque si aprono a ventaglio, a distanza di varie centinaia di metri l’uno dall’altro, e si lanciano verso sud nella nube di polvere.
— Infra — dice Barnes-Avne. Il visore passa ai raggi infrarossi per seguire la squadra nella nube sempre più fitta. — Illuminare bersaglio — ordina Barnes-Avne. L’immagine si sposta verso sud, ma il bersaglio è solo una confusa macchia di calore.
— Piccolo — commenta Barnes-Avne.
— Aereo? — domanda de Soya. È abituato a display tattici spaziali.
— Troppo piccolo, a meno che non sia una sorta di paracadute frenante motorizzato — risponde Barnes-Avne. Nella sua voce non c’è neppure una traccia di tensione.
De Soya guarda in basso, mentre lo skimmer passa sopra l’estremità meridionale della Valle delle Tombe del Tempo e accelera. La tempesta di polvere è un’ampia striscia marrone dorato, lungo l’orizzonte, davanti a loro.
«Distanza d’intercettazione 180 chilometri» comunica, laconico, il sergente Gregorius. Il visore di de Soya è collegato a quello di Barnes-Avne; i due vedono ciò che vede il sergente delle Guardie Svizzere: ossia, niente. La squadra di soldati procede a volo strumentale in turbini di sabbia così fitti che intorno a loro l’aria è nera come di notte.
«Gli zaini a reazione si riscaldano» dice con calma un’altra voce. De Soya controlla la legenda. Si tratta del caporale Kee. «La sabbia intasa le prese d’aria» continua il caporale.
Attraverso il visore de Soya guarda Barnes-Avne. Sa che la donna deve fare una scelta difficile: un altro minuto in quella nube di sabbia potrebbe far precipitare e morire uno o più componenti della squadra; l’insuccesso nell’identificazione del velivolo sconosciuto potrebbe procurarle guai più tardi.
«Sergente Gregorius» dice Barnes-Avne, con voce sempre ferma come roccia «elimini subito l’intruso.»
Sulla banda di trasmissione c’è la più breve delle esitazioni. «Comandante, non possiamo trattenerci qui neanche un…» comincia il sergente. De Soya riesce a udire, sopra la voce dell’uomo, l’ululato della tempesta.