«Lo elimini subito» ordina Barnes-Avne.
«Affermativo.»
De Soya passa al visore tattico a largo raggio e alza gli occhi in tempo per accorgersi che Barnes-Avne lo osserva. — Pensa che si tratti di una manovra diversiva? — dice la donna. — Per attirarci lontano, in modo che il vero intruso possa infiltrarsi da un’altra zona?
— Può darsi — dice de Soya. Vede dal display che il comandante ha dato l’allarme Livello 5 a tutto il perimetro. L’allarme Livello 6 significa combattimento.
— Ora vediamo — dice Barnes-Avne, proprio mentre la squadra di Gregorius apre il fuoco.
La tempesta di polvere è un ribollente calderone di sabbia e di cariche elettriche. A 175 chilometri, le armi a energia non sono affidabili. Gregorius opta per un dardo d’acciaio a pioggia e lo lancia lui stesso. Il dardo accelera a 6 mach. Il velivolo sconosciuto mantiene la rotta.
— Privo di sensori, penso — dice Barnes-Avne. — Vola alla cieca. Programmato.
Il dardo passa sopra il bersaglio-calore ed esplode a una distanza di trenta metri; la carica sagomata spinge le ventimila fléchettes dritto sulla rotta dell’intruso.
«Contatto cessato» dice il controllo dalla Tre-C; nello stesso istante il sergente Gregorius riferisce: «Colpito!».
«Trovarlo e identificarlo» ordina Barnes-Avne. Lo skimmer ha virato di nuovo verso la Valle.
De Soya lancia un’occhiata attraverso il display del visore: la donna ha ottenuto la preda, ma non richiama la squadra dalla tempesta.
«Affermativo» risponde il sergente. La tempesta è talmente violenta da provocare disturbi elettrostatici perfino nella banda a raggio compatto.
Lo skimmer vola a bassa quota sopra la valle e de Soya identifica per la millesima volta le Tombe: in ordine inverso rispetto al normale approccio dei pellegrini (anche se da più di tre secoli non ci sono pellegrinaggi) viene prima il Palazzo dello Shrike, più a sud degli altri, con contrafforti seghettati e uncinati che ricordano la creatura che lì nessuno ha mai più visto; poi le più astruse Tombe Grotta, tre in tutto, con l’ingresso intagliato nella rosea pietra della parete del canyon: quindi l’enorme Monolito di Cristallo, piazzato al centro; poi l’Obelisco; poi la Tomba di Giada; e infine la Sfinge dagli intricati bassorilievi, con la porta chiusa e le ali spalancate.
De Soya dà un’occhiata al cronometro.
— Un’ora e cinquantasei minuti — dice Barnes-Avne.
Il Padre Capitano de Soya si morde il labbro. Il cordone di Guardie Svizzere è in posizione intorno alla Sfinge… si trova lì da mesi. Più in fuori, altri soldati sono sistemati lungo un perimetro più ampio. Ogni Tomba ha il suo distaccamento di soldati in attesa, nel caso che la profezia sia stata male interpretata. Fuori della Valle, ancora altri soldati. Sopra di loro, montano la guardia le navi torcia e quella comando. All’ingresso della Valle è in attesa la navetta privata di de Soya, con i motori già accesi, pronta per l’immediato decollo, appena imbarcata la bambina. Duemila chilometri più in alto, la nave corriere classe Arcangelo, la Raffaele, tiene pronta la cuccetta d’accelerazione formato ridotto.
Prima però, de Soya lo sa, la bambina il cui nome potrebbe essere Aenea deve ricevere il sacramento del crucimorfo. Questo avrà luogo in orbita, nella cappella della nave torcia San Bonaventura, qualche attimo prima che la bambina addormentata sia trasferita sulla nave corriere. Dopo tre giorni la bambina sarà risuscitata su Pacem e consegnata alle autorità della Pax.
Il Padre Capitano de Soya si umetta le labbra secche. Si preoccupa che una bambina innocente sia maltrattata, tanto quanto si preoccupa che qualcosa vada storto durante la detenzione. Non riesce a immaginare come una bambina… anche una bambina del passato, una bambina che è entrata in comunicazione con il TecnoNucleo… possa rappresentare una minaccia per la Pax e per la Santa Chiesa.
Cerca di soffocare quei pensieri: non è compito suo, immaginare. Deve eseguire ordini, servire i superiori e, attraverso loro, la Chiesa e Gesù Cristo.
«Ecco il vostro velivolo sconosciuto» dice la voce rauca del sergente Gregorius. Il video è confuso, la tempesta di polvere infuria ancora, ma tutt’e cinque i soldati sono scesi sul luogo della caduta.
De Soya aumenta la risoluzione del display e vede il legno e la carta fatti a pezzi, il metallo contorto di quello che forse era un semplice pulsoreattore fuoribordo a batteria solare.
«Aeromobile senza pilota» dice il caporale Kee.
De Soya alza il visore e sorride a Barnes-Avne. — La sua ennesima esercitazione — dice. — Con questa, oggi fanno cinque.
Barnes-Avne non ricambia il sorriso. — La prossima volta potrebbe essere un vero intruso — replica. Parla nel microfono tattico. «Livello 5 prosegue. A S-meno sessanta, passiamo a Livello 6.»
Su tutte le bande arrivano segnali di conferma.
— Ancora non capisco chi potrebbe voler interferire — dice il Padre Capitano de Soya. — Né come potrebbe farlo.
Barnes-Avne si stringe nelle spalle. — Gli Ouster potrebbero traslare da C-più in questo stesso momento.
— Allora farebbero bene a portare un intero Sciame. Una forza appena appena inferiore non ci creerebbe grandi difficoltà.
— Niente nella vita è privo di difficoltà — commenta Barnes-Avne.
Lo skimmer tocca terra. Il portello gira sui cardini, la rampa si abbassa. Il pilota si gira nel sedile, alza il visore. — Comandante, Capitano — dice. — Volevate atterrare davanti alla Sfinge all’ora S-meno centodieci minuti. Siamo in anticipo di un minuto.
De Soya stacca il collegamento che lo lega al quadro comandi dello skimmer. — Vado a sgranchirmi le gambe prima che arrivi la tempesta — dice a Barnes-Avne. — Mi accompagna, se le fa piacere?
— No — risponde la donna. Abbassa il visore e comincia a trasmettere ordini.
Fuori dello skimmer l’aria è fina e carica d’elettricità. Il cielo ha sempre quel peculiare color lapislazzuli, ma già sul bordo meridionale del canyon si libra una caligine che indica l’approssimarsi della tempesta.
De Soya dà un’occhiata al cronometro. Centodieci minuti. Trae un profondo respiro, promette a se stesso di non guardare l’ora per almeno dieci minuti e fa quattro passi nell’ombra minacciosa della Sfinge.
12
Dopo ore di discussioni fui mandato a dormire fino alle tre del mattino. Naturalmente non dormii affatto. Ho sempre avuto difficoltà a dormire alla vigilia di un viaggio: quella notte non chiusi occhio.
La città di cui portavo il nome era silenziosa, dopo mezzanotte; la brezza autunnale era calata e le stelle risplendevano vividamente. Per un paio d’ore rimasi in camicia da notte, ma all’una mi alzai, indossai i robusti abiti avuti la sera precedente e per la quinta o sesta volta passai in rassegna il contenuto del mio zaino.
Non c’era molto, per un’avventura così scoraggiante: un cambio d’abiti e biancheria, calze, una torcia laser, due borracce d’acqua, un coltello (ne avevo precisato il tipo) nel fodero con cinturone, una pesante giubba di tela con fodera termica, una coperta ultraleggera da usare come giaciglio, una bussola inerziale, un vecchio maglione, occhiali per la visione notturna, un paio di guanti di pelle. — Cos’altro ti servirebbe per esplorare l’universo? — borbottai tra me.
Avevo anche precisato il tipo d’indumenti che avrei indossato quel giorno: una comoda camicia di tela e un giubbotto con numerose tasche, pesanti calzoni di saia del tipo che portavo a caccia d’anatre nelle paludi, alti stivali di pelle (immaginavo che fossero così gli "stivali da bucaniere" che Nonna descriveva nelle sue storie) un pelo troppo stretti e un morbido cappello a tricorno da piegare e tenere in tasca quando non ne avevo bisogno.