Mi agganciai il cinturone col coltello, misi nel taschino la bussola, mi accostai alla finestra e rimasi a guardare le stelle che giravano sulle cime delle montagne, finché A. Bettik non venne a chiamarmi, alle due e quarantacinque.
Il vecchio poeta era sveglio, sulla sedia a cuscino d’aria, a capotavola nel piano più alto della torre. Il tetto di tela era stato aperto e si vedevano le stelle, gelide, brillanti. Fiamme guizzavano nei bracieri lungo la parete; più in alto c’erano staffe con vere torce. La colazione era già in tavola: bistecche, frutta, focacce di farina integrale con sciroppo, pane fresco; presi solo una tazza di caffè.
— Faresti meglio a mangiare — brontolò il vecchio. — Non sai quando ti toccherà il prossimo pasto.
Rimasi in piedi a fissarlo. Il vapore del caffè mi scaldava il viso. L’aria era gelida. — Se tutto va secondo i piani — dissi — in meno di sei ore sarò nella nave spaziale. Mangerò allora.
Martin Sileno sbuffò rumorosamente. — Quando mai tutto va secondo i piani, Raul Endymion?
Sorseggiai il caffè. — A proposito di piani, doveva parlarmi di quella sorta di miracolo che distrarrà le Guardie Svizzere mentre porto via la sua giovane amica.
Il vecchio poeta mi scrutò in silenzio per qualche istante. — A questo riguardo abbi fiducia in me e basta, d’accordo? — replicò poi.
Sospirai. M’aspettavo una risposta del genere. — Le cose per cui devo fidarmi sono una montagna, vecchio.
Sileno annuì, ma non aprì bocca.
— E va bene — dissi alla fine. — Staremo a vedere cosa succede. — Mi girai verso A. Bettik, fermo accanto alla scala. — Non dimenticare di farti trovare là con la nave, quando ne avremo bisogno.
— Non me ne dimenticherò, signore.
Mi avvicinai al tappeto hawking disteso sul pavimento. A. Bettik vi aveva già messo il mio zaino. — Ultime istruzioni? — domandai, senza sapere bene a chi mi ero rivolto.
Il vecchio si avvicinò, librato sulla poltrona a cuscino d’aria. Nella luce delle torce pareva vecchissimo, più avvizzito e mummificato che mai. Le sue dita erano ossa ingiallite. — Solo questo — disse con voce rauca. — Ascolta…
— Cosa? — dissi. — non…
— Vaffanculo — sbottò il poeta. — Pensa solo a prendere Aenea, a portarla dagli Ouster e a riportarla indietro viva. Non è poi troppo complicato. Dovrebbe riuscirci perfino un pastore.
— Nonché allievo paesaggista, cameriere al banco e cacciatore d’anatre — replicai, posando la tazza di caffè.
— Sono quasi le tre. Devi muoverti.
Trassi un respiro. — Solo un minuto. — Scesi dabbasso e andai in gabinetto; fatti i bisogni, mi appoggiai per un momento alla fredda parete di pietra. "Sei impazzito, Raul Endymion?" mi dissi. Il pensiero era mio, ma lo udivo espresso dalla calma voce di Nonna. "Sì" risposi.
Risalii rapidamente le scale, sorpreso per come mi tremavano le gambe e mi batteva il cuore.
— Tutto fatto — annunciai. — Mia madre mi raccomandava sempre di pensarci prima d’uscire di casa.
Il millenario poeta borbottò qualcosa e spinse la sedia accanto al tappeto volante. Mi sedetti sul tappeto, attivai i filamenti di volo e mi librai a un metro e mezzo dal pavimento.
— Quando sarai nella Fenditura e avrai trovato l’ingresso, non dimenticare che il tappeto è programmato — disse Sileno.
— Lo so, m’ha detto tutto sul…
— Chiudi il becco e ascolta — gracchiò il poeta. Dita che parevano di antica pergamena indicarono l’appropriato disegno. — Ricorda come usarlo. Una volta dentro, tocca in sequenza qui… qui… qui… e interverrà il programma di volo automatico. Per guidarlo manualmente, puoi interrompere la sequenza toccando questo disegno… — Con le dita accarezzò l’aria sopra i filamenti. — Ma non cercare di guidarlo manualmente, là sotto. Non troveresti mai la via d’uscita.
Mi umettai le labbra. — Non mi ha detto chi lo ha programmato. Chi ha già fatto questo volo prima di me?
Il vecchio satiro mostrò i denti in un sorriso. — Io, ragazzo. Ci sono voluti mesi, ma l’ho fatto. Quasi due secoli fa.
— Due secoli! — Fui sul punto di scendere dal tappeto. — E se ci sono stati crolli? Slittamenti per terremoti? Se da allora si sono formati ostacoli?
Martin Sileno si strinse nelle spalle. — Andrai a più di duecento all’ora, ragazzo — disse. — Immagino che ci lascerai la pelle. — Mi diede una manata sulla schiena. — Vai pure. Porta a Aenea il mio amore. Dille che zio Martin aspetta di rivedere la Vecchia Terra, prima di morire. Dille che il vecchiaccio è ansioso di sentirle spiegare il senso d’ogni moto, forma, suono.
Feci alzare il tappeto di un altro mezzo metro.
A. Bettik venne avanti e mi tese la mano. Gliela strinsi. — Buona fortuna, signor Endymion — mi disse.
Risposi con un cenno, non trovando parole, e guidai il tappeto volante fuori della torre, in una spirale sempre più alta.
Per andare direttamente da Endymion, nel centro del continente Aquila, alla Valle delle Tombe del Tempo, nel continente Equus, avrei dovuto puntare a nord. Puntai a est.
Le prove di volo del giorno precedente (ma era sempre lo stesso giorno, per la mia mente stanca) avevano dimostrato quanto fosse facile guidare il tappeto hawking, però a una velocità di pochi chilometri all’ora. Raggiunta la quota di un centinaio di metri al di sopra della torre, stabilii la direzione (con la pennaluce stretta fra i denti illuminai la bussola inerziale, mentre disponevo il tappeto lungo quell’invisibile linea e la controllavo sulla mappa topografica fornitami dal vecchio poeta) e tenni il palmo premuto sul disegno d’accelerazione. Il tappeto continuò a prendere velocità e presto si accese il lieve campo di contenimento che m’avrebbe riparato dal vento. Troppo tardi mi girai a dare un’ultima occhiata alla torre… forse per vedere se il vecchio poeta mi guardava da una finestra; ma le rovine della città universitaria erano già fuori vista nel buio delle montagne.
Il tappeto non aveva tachimetro, perciò dovevo presumere che volasse alla massima velocità, mentre si alzava verso gli alti picchi a oriente. La luce delle stelle si rifletteva su campi di neve a quote più alte della mia; per prudenza riposi la pennaluce, misi gli occhiali per la visione notturna e continuai a controllare sulla carta topografica la mia posizione. Mentre il terreno si alzava, mi alzavo anch’io, mantenendo il tappeto a un centinaio di metri sopra i massi, le cascate, gli scivoli delle valanghe e i ghiacciai, tutti con un riflesso verdastro nella luce delle stelle accresciuta dagli occhiali per la visione notturna. Il tappeto non faceva il minimo rumore (anche il frastuono del vento era attutito dal campo di contenimento) e varie volte vidi grossi animali correre a nascondersi, sorpresi dall’improvvisa comparsa di quel bizzarro uccello privo d’ali. Mezz’ora dopo avere lasciato la torre, attraversai lo spartiacque continentale, mantenendo il tappeto al centro del valico alto cinquemila metri. Lassù faceva freddo; anche se il campo di contenimento tratteneva nell’immobile bolla d’aria una parte del mio calore corporeo, già da un poco mi ero messo il giubbotto termico e i guanti.