Al di là delle montagne, in rapida discesa per tenermi a poca distanza dall’accidentato terreno, guardai la tundra lasciare posto alle paludi e le paludi a bassi filari di semprazzurri nani e di tripioppi tremuli; poi vidi svanire quegli alberi d’alta montagna, mentre il bagliore delle foreste di fuoco dei tesla iniziava a illuminare come una falsa alba il cielo a oriente.
Riposi nello zaino gli occhiali. Lo spettacolo davanti a me era bellissimo, ma incuteva un certo timore: l’intero orizzonte orientale scoppiettava di scariche elettriche, fulmini globulari schizzavano fra gli alberi tesla alti centinaia di metri, fulmini ramificati saettavano fra i tesla e i prometei in esplosione, arbusti fenice e fuochi sparsi ardevano sul terreno in migliaia di punti. Martin Sileno e A. Bettik mi avevano avvertito: portai più in alto il tappeto, accettando il rischio d’essere scoperto, piuttosto che incappare in quel turbine elettrico.
Dopo un’ora, un accenno d’alba superò il bagliore della foresta di fuoco; ma proprio mentre il cielo si schiariva e poi s’accendeva della luce del giorno, la foresta di fuoco rimase alle mie spalle e davanti a me comparve la Fenditura.
M’ero accorto d’avere preso quota negli ultimi quaranta minuti, controllando sulla spiegazzata mappa topografica la rotta sopra l’altopiano Punta d’Ala, ma ora sentivo l’altitudine, mentre scorgevo lo smisurato e profondo crepaccio in quella parte del continente Aquila. La Fenditura incuteva timore come le foreste di fuoco: stretta, a picco, profonda tremila metri rispetto all’altopiano. Attraversai il bordo meridionale della grande spaccatura nello zoccolo continentale e scesi in picchiata verso il fiume, tre chilometri più in basso. La Fenditura continuava verso est, il fiume sotto di me scrosciava più o meno alla stessa velocità del tappeto. Nel giro di qualche istante il cielo mattutino si scurì e le stelle ricomparvero; era come se fossi finito in un profondo pozzo. Il fiume alla base di quelle terrificanti pareti scoscese era agitato, pieno di blocchi di ghiaccio, e saltava sopra massi grossi come la nave spaziale rimasta nella torre. Mi mantenni a cinque metri dalla spruzzaglia e rallentai ancora. La meta doveva essere vicina.
Controllai il cronometro e poi la mappa. Da qualche parte, entro i prossimi due chilometri, c’era un… Eccolo là!
Era più ampio di come me l’avevano descritto, almeno trenta metri di lato, e perfettamente quadrato. L’ingresso del labirinto planetario pareva quello, scolpito, di un tempio o una gigantesca porta. Rallentai ancora, virai a sinistra e mi soffermai sulla soglia. Avevo impiegato un po’ meno di novanta minuti per arrivare alla Fenditura. La Valle delle Tombe del Tempo si trovava a mille chilometri verso nord. Quattro ore di volo ad alta velocità di crociera. Guardai di nuovo il cronometro: fra quattro ore e venti minuti la bambina, secondo i programmi, sarebbe uscita dalla Sfinge.
Spinsi avanti il tappeto ed entrai nella caverna. Cercai di ricordare i particolari del Racconto del Prete riportato nei Canti del vecchio poeta. Mi venne in mente soltanto che proprio lì, appena oltre l’ingresso del labirinto, padre Duré e i Bikura avevano incontrato lo Shrike e i crucimorfi.
Lo Shrike non c’era. Non fui sorpreso: quell’essere non era stato più visto fin dalla Caduta della Rete dei Mondi, 274 anni fa. Non c’erano crucimorfi. Neanche questa fu una sorpresa: da lungo tempo la Pax li aveva mietuti dalle pareti di quella caverna.
Sapevo sul Labirinto ciò che sapevano tutti. Nella vecchia Egemonia si conoscevano nove pianeti dove esisteva un Labirinto. Tutti quei mondi erano simili alla Terra (grado 7,9 secondo l’antica scala Solmev), ma tettonicamente morti e quindi, sotto questo aspetto, assomigliavano più a Marte. I tunnel del Labirinto crivellavano quei nove pianeti, Hyperion compreso, e non si sapeva a che cosa servissero. Erano stati scavati decine di migliaia d’anni prima che la razza umana lasciasse la Vecchia Terra, ma non si era mai trovato alcun indizio di chi li avesse scavati. I Labirinti avevano originato numerosi miti, inclusi i Canti, ma non avevano svelato il loro mistero. Il Labirinto di Hyperion non era mai stato riportato su mappa… a parte il tratto che ero pronto a percorrere a 270 chilometri all’ora. Quel tratto era stato esplorato da un poeta pazzo. Almeno, mi augurai che l’avesse esplorato davvero.
Misi di nuovo gli occhiali per la visione notturna, mentre alle mie spalle la luce del sole svaniva. Quando l’oscurità si chiuse intorno a me, mi sentii rizzare i capelli. Presto gli occhiali sarebbero stati inutili, perché non ci sarebbe stata luce da amplificare. Tolsi dallo zaino il nastro adesivo e fissai la torcia laser sulla parte anteriore del tappeto, regolando il raggio su dispersione massima. La luce sarebbe stata fioca, ma gli occhiali l’avrebbero amplificata. Già scorgevo più avanti le prime diramazioni: la caverna era un prisma rettangolare, enorme e vuoto, trenta metri di lato, con solo piccolissimi segni di fenditure o di cedimenti; ancora più avanti, altri tunnel si aprivano a destra, poi a sinistra, poi verso il basso.
Inspirai a fondo e premetti i fili di volo nella sequenza del programma. Il tappeto balzò avanti e accelerò; l’improvviso sobbalzo mi spinse indietro, malgrado l’effetto di compensazione del campo di contenimento.
Quel campo non mi avrebbe protetto, se il tappeto avesse imboccato la curva sbagliata e si fosse schiantato a tutta velocità contro una parete. Rocce passarono come un lampo. Il tappeto si piegò ad angolo acuto per fare una svolta a destra, si livellò nel centro del lungo tunnel, si tuffò per seguire una diramazione che sprofondava.
Lo spettacolo era terrificante. Mi tolsi gli occhiali, li misi al sicuro nella tasca del giubbotto, mi aggrappai al bordo dello scalpitante tappeto e chiusi gli occhi. Avrei potuto risparmiare la fatica: ora il buio era assoluto.
13
Mancano ancora quindici minuti all’apertura della Sfinge e il Padre Capitano de Soya passeggia avanti e indietro nella valle. La tempesta è giunta fin lì e la polvere riempie l’aria, in una corrosiva tormenta. Centinaia di Guardie Svizzere sono schierate lungo il fondovalle, ma i loro veicoli corazzati, le piazzole di cannoni, le batterie di missili, i posti d’osservazione, sono tutti invisibili a causa della tempesta di polvere. De Soya sa che sarebbero comunque invisibili, nascosti da campi di mimetizzazione e da schermi di polimero camaleonte. Per scorgere qualcosa in quell’ululante tempesta deve affidarsi agli infrarossi. Anche col visore abbassato e chiuso, minuscole particelle di sabbia gli entrano nel colletto della tuta da combattimento e in bocca. Il giorno sa di sabbia. Per il sudore, de Soya ha sulla fronte e sulle guance piccole scie di fango rossastro, come sangue di una sacra stimmata.
«Attenzione» trasmette su tutti i canali. «Parla il Padre Capitano de Soya, responsabile di questa missione per ordine del Papa. Fra qualche secondo il comandante Barnes-Avne ripeterà questi ordini, ma al momento voglio mettere in chiaro che non ci saranno azioni di guerra, non si aprirà il fuoco, non si attueranno difese che in qualsiasi modo possano mettere a repentaglio la vita della bambina che uscirà da una di queste tombe… fra tredici minuti e mezzo. Voglio che l’ordine sia ben capito da ogni ufficiale e soldato della Pax, da ogni capitano di nave torcia e da ogni marinaio spaziale, da ogni pilota e da ogni ufficiale dei mezzi aerei: bisogna catturare la bambina, ma senza torcerle un capello! La mancata ubbidienza a quest’ordine avrà come risultato la corte marziale e l’esecuzione sommaria. Possiamo noi tutti in questo giorno servire il Nostro Signore e la nostra Chiesa… Nel nome di Gesù, Giuseppe e Maria, chiedo che il nostro sforzo abbia successo. Padre Capitano de Soya, comandante interinale della spedizione Hyperion, fine.»