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De Soya capisce che la bambina entrerà in questa nuova epoca solo per trovarsi davanti tre figure in casco e tuta da combattimento. Alza tutti i visori. Forse non riuscirà mai a parlare alla bambina, ma vuole almeno che lei veda un viso umano, prima che l’addormentino.

«Quindici secondi.» Per la prima volta de Soya nota una traccia di tensione nella voce di Barnes-Avne.

Turbini di sabbia gli artigliano gli occhi scoperti. De Soya alza la mano guantata, si strofina gli occhi, batte le palpebre tra le lacrime. Si avvicina ancora di un passo, imitato dalla dottoressa Chatkra. I battenti della Sfinge cominciano ad aprirsi verso l’interno. L’interno è buio. De Soya rimpiange di non usare gli infrarossi, ma non abbassa il visore. Ha deciso che la bambina vedrà i suoi occhi.

Un’ombra si muove nelle tenebre. La dottoressa fa per avvicinarsi, ma de Soya le tocca il braccio. — Aspetti — dice.

L’ombra diventa una sagoma; la sagoma diventa una figura; la figura è una bambina. Più piccola di quanto de Soya non s’aspetti. I suoi capelli, lunghi fino alle spalle, sono scompigliati dal vento.

— Aenea — dice de Soya. Non intendeva rivolgerle la parola, né chiamarla per nome.

La bambina alza il viso e lo guarda. De Soya vede i suoi occhi scuri, ma non vi legge paura, solo… ansia? tristezza?

— Aenea, non preoccuparti… — comincia de Soya; ma la dottoressa avanza rapidamente, iniettore alzato, e la bambina arretra d’un passo.

Proprio allora il Padre Capitano de Soya scorge nel buio la seconda figura. E proprio allora iniziano le urla.

14

Prima di quel viaggio non sapevo di soffrire di claustrofobia. Il volo ad alta velocità nel buio assoluto di quelle catacombe, il campo di contenimento che bloccava perfino l’aria spostata dal mio passaggio, la sensazione di pietra e di tenebra tutt’intorno… dopo venti minuti, sospesi il programma di guida automatica, feci atterrare il tappeto, annullai il campo di contenimento, mossi qualche passo e urlai.

Afferrai la torcia laser e illuminai le pareti. Un normale corridoio di pietra. Senza il campo di contenimento, fui colpito dal calore. Il tunnel era di sicuro a notevole profondità. Niente stalattiti, né stalagmiti, né pipistrelli, né creature viventi… solo quel tunnel a sezione quadrata che si estendeva all’infinito. Illuminai il tappeto hawking. Pareva morto, del tutto inerte. Forse nella fretta avevo commesso un errore e cancellato il programma. In questo caso, ero morto. Fino a quel momento avevo imboccato una ventina di diramazioni: non avevo la minima possibilità di trovare la via d’uscita.

Urlai di nuovo, ma stavolta si trattava di un urlo più voluto, per rompere in qualche modo la tensione. Lottai per vincere l’impressione che le pareti e le tenebre si chiudessero su di me. Con uno sforzo di volontà soffocai la nausea.

Rimanevano tre ore e mezzo. Tre ore e mezzo di corsa da incubo a tutta velocità nel buio, aggrappato a un tappeto volante… e poi?

Rimpiansi in quel momento di non avere portato un’arma. Era parsa un’idea assurda: nessuna pistola m’avrebbe dato una possibilità contro un solo soldato delle Guardie Svizzere… neppure contro un irregolare della Guardia Nazionale, se per questo… ma ora rimpiangevo di non avere armi. Tolsi dal fodero il piccolo coltello da caccia, guardai l’acciaio mandare riflessi nel raggio della torcia e scoppiai a ridere.

Assurdo!

Misi a posto il coltello, mi lasciai cadere sul tappeto e battei il codice di continuazione programma. Il tappeto s’irrigidì, si sollevò e partì di scatto, con violenza. Andavo chissà dove a tutta velocità.

Il Padre Capitano de Soya scorge la gigantesca sagoma per un attimo, prima che scompaia; e iniziano le urla. La dottoressa Chatkra si muove verso la bambina che arretra, blocca così la visuale a de Soya; si sente uno spostamento d’aria, percettibile anche nel vento che ruggisce tutt’intorno: la testa della dottoressa Chatkra rotola e rimbalza al di là degli stivali di de Soya.

— Madre di Dio — mormora il Padre Capitano nel microfono aperto. Il corpo della dottoressa Chatkra è ancora in piedi. La bambina… Aenea… allora urla e il suono quasi si perde nell’ululato della tempesta di sabbia; come se l’urlo abbia sconvolto un delicato equilibrio, il corpo di Chatkra cade sul gradino di pietra. L’assistente, Caf, grida qualcosa d’incomprensibile e si tuffa verso la bambina. Di nuovo quel rapidissimo movimento, più intuito che visto: il braccio di Caf si stacca dal corpo. Aenea corre verso la scala. De Soya si lancia verso la bambina, ma va a sbattere contro una sorta d’enorme statua metallica fatta di lame taglienti come rasoi. Punte acuminate trapassano l’armatura da combattimento… impossibile, pensa de Soya, ma sente il proprio sangue sgorgare da una decina di piccole ferite.

— No! — urla di nuovo la bambina. — Fermo! Te lo ordino!

La statua metallica alta tre metri si gira lentamente. De Soya ha la confusa impressione di occhi rossi, ardenti, fissi sulla bambina; poi la scultura scompare. Il Padre Capitano muove un passo verso la bambina, vuole ancora rassicurarla, oltre che catturarla, ma si sente mancare la gamba sinistra e cade sul ginocchio destro, urtando l’ampio gradino di pietra.

La bambina gli si accosta, gli tocca la spalla, e mormora… in qualche modo si fa udire al di sopra degli ululati del vento e di quelli, peggiori, di persone agonizzanti che provengono dagli auricolari… tre parole: — Andrà tutto bene.

Il Padre Capitano de Soya si sente soffuso di benessere in tutto il corpo, ha la mente piena di gioia. Piange.

La bambina è scomparsa. De Soya vede una figura gigantesca stagliarsi su di lui, serra i pugni, cerca d’alzarsi, pur sapendo che è inutile: la creatura è tornata per ucciderlo.

— Calma, calma! — grida il sergente Gregorius. Aiuta de Soya ad alzarsi. Il Padre Capitano non sta in piedi… la gamba sinistra perde sangue e non lo sostiene… perciò Gregorius lo regge con un braccio e con la lancia a energia spazza l’intera zona.

— Non sparare! — grida de Soya. — La bambina…

— Sparita — dice il sergente Gregorius. Continua a fare fuoco. Una lancia di pura energia frusta lo scoppiettante turbine di sabbia. — Maledizione! — impreca Gregorius. Si mette in spalla il Padre Capitano. Le urla su tutta la rete di comunicazione diventano isteriche.

Il cronometro e la bussola mi dicono che sono quasi arrivato. Niente lo farebbe pensare. Volo ancora alla cieca, sempre aggrappato al tappeto sobbalzante che sceglie in quale diramazione dell’infinito labirinto lanciarmi a tutta velocità. Non mi sono accorto che i tunnel risalgano verso la superficie, ma a dire il vero mi sono accorto di ben poco, a parte il senso di vertigine e di claustrofobia.

Nelle ultime due ore ho tenuto il visore notturno e con la torcia laser aperta al massimo ho illuminato il percorso. A trecento chilometri all’ora, le pareti di pietra sfrecciano con una rapidità da far paura. Preferisco vederle sfrecciare, anziché stare al buio.

Ho ancora il visore, quando la prima luce mi acceca. Mi tolgo gli occhiali, li metto in una tasca del giubbotto e batto le palpebre per eliminare le immagini residue. Il tappeto hawking mi proietta verso un rettangolo di pura luce.

Il vecchio poeta diceva che la Terza Tomba Grotta è rimasta chiusa per più di due secoli e mezzo. Dopo la Caduta, i portali di tutte le Tombe del Tempo sono stati chiusi, ma la Terza Tomba Grotta in realtà era già chiusa da una parete di roccia interposta tra il portale e il Labirinto. Ormai da alcune ore m’aspettavo d’andare a sbattere contro quella parete a trecento chilometri all’ora.

Il rettangolo di luce s’ingrandisce rapidamente. Mi accorgo che da qualche tempo il tunnel procede in salita: qui sale in superficie. Sono lungo e disteso sul tappeto hawking, lo sento rallentare mentre giunge al termine del piano di volo programmato. — Bel lavoro, vecchio mio — dico ad alta voce, per la prima volta dopo quell’interludio di grida, tre ore e mezzo fa.