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— Qua — ansima Gregorius. Con delicatezza cala nella bolla il Padre Capitano de Soya. L’attimo dopo, vi s’infila e con il raggio torcia della lancia a energia illumina l’interno dello scarabeo. Il sedile di guida pare spruzzato di vernice rossa. Le paratie posteriori paiono schizzate di colori a caso, un po’ come l’assurda "arte astratta" pre-Egira che de Soya ha avuto occasione di vedere in un museo. Solo che questa tela di metallo è impiastrata di parti di corpo umano.

Il sergente Gregorius tira de Soya più all’interno dello scarabeo inclinato sul fianco e lo sistema contro la paratia inferiore. Altre due figure in tuta s’infilano nella bolla frantumata.

De Soya si pulisce gli occhi sporchi di sangue e di sabbia e dice: — Sto bene. — Voleva usare un tono normale, ma la voce è debole, quasi infantile.

— Signorsì — ringhia Gregorius, mentre stacca dal cinturone il medipac di pronto soccorso.

— Non occorre — dice debolmente de Soya. — La tuta… — Tutte le tute da guerra hanno l’incamiciatura medica sigillante e semi-intelligente. De Soya è certo che la tuta si è già presa cura dei trascurabili taglietti e ferite. Ma ora abbassa lo sguardo.

Ha la gamba sinistra quasi tranciata. La tuta da guerra, onnipolimera, antiurto, resistente alle scariche d’energia, pende a brandelli come la gomma squarciata di uno pneumatico da poco prezzo. De Soya scorge il bianco del femore. La tuta si è stretta in un rozzo laccio emostatico intorno alla coscia, gli ha salvato la vita, ma ci sono cinque o sei gravi perforazioni nella corazza del torace e le spie luminose del display medico sul petto brillano di luce rossa.

— Oh, Dio — sospira il Padre Capitano de Soya. È una preghiera.

— Tutto a posto — dice il sergente Gregorius, stringendo intorno alla coscia un secondo laccio emostatico. — Ora la portiamo da un medico, signore, e poi nella nave ospedale. — Guarda le due figure in armatura, accosciate dietro i sedili anteriori, esauste. — Kee? Rettig?

— Sì, sergente? — La più bassa delle due figure alza gli occhi.

— Mellick e Ott?

— Morti, sergente. Quella cosa li ha beccati alla Sfinge.

— Resta in rete — dice Gregorius e torna a occuparsi di de Soya. Si toglie il guanto e tocca una delle perforazioni più grosse. — Fa male, signore?

De Soya scuote la testa. Non sente il tocco.

— Bene — dice il sergente, ma pare dispiaciuto. Comincia a chiamare, sulla rete tattica.

— La bambina — dice il Padre Capitano de Soya. — Dobbiamo trovare la bambina.

— Sissignore — dice Gregorius, ma continua a chiamare su diversi canali. Ora de Soya ascolta e ode la confusione di voci.

«Attento! Cristo! Sta tornando…»

«San Bonaventura! San Bonaventura! Siete aperti al vuoto! Ripeto, siete aperti al…»

«Scorpione Uno-Nove a ogni controllore… Cristo… Scorpione Uno-Nove, motore sinistro fottuto… non vediamo la Valle… ci spostiamo…»

«Jamie! Jamie! Dio mio…»

«Via dalla rete! Maledizione, mantenere la disciplina radio! Via dalla fottuta rete!»

«Padre Nostro che sei nei cieli, sia santificato il Tuo nome…»

«Che cazzo… oh, merda… quel fottuto l’ho beccato, ma… merda…»

«Diversi velivoli non identificati… ripeto… diversi velivoli non identificati… nessuna reazione al fuoco di controllo… sono parecchi…» Questa voce si muta di colpo in urla.

«Comando Uno, rispondete. Comando Uno, rispondete!»

Sentendo la coscienza scorrere via come il sangue che si raccoglie sotto la sua gamba maciullata, de Soya abbassa il visore. Il display tattico è rovinato. De Soya apre il canale di comando con lo skimmer di Barnes-Avne. «Comandante, qui il Padre Capitano de Soya. Comandante?»

La linea non funziona.

— Il comandante è morto, signore — dice Gregorius, premendo contro il braccio nudo di de Soya una fiala di adrenalina. Il Padre Capitano non si ricorda che gli abbiano tolto il guanto e la corazza da combattimento. — Ho visto sul tattico il suo skimmer entrare in azione, prima che tutto andasse all’inferno — prosegue il sergente, legando all’osso della coscia la gamba penzolante di de Soya, come se legasse un carico libero. — Il comandante è morto, signore. Il colonnello Brideson non risponde. Il capitano Ranier, dalla nave torcia, non risponde. La Tre-C non risponde.

De Soya lotta per non perdere conoscenza. — Cosa succede, sergente?

Gregorius si china su di lui. Ha i visori alzati e de Soya scopre solo allora che il gigantesco sergente è un nero. — Prima d’entrare nelle Guardie Svizzere, noi marines avevamo un’espressione per indicare cosa ci hanno fatto, signore.

— Un Charlie Papa — dice il Padre Capitano de Soya, tentando di sorridere.

— Così si esprime la gente per bene della marina come lei — conferma Gregorius. Indica ai due soldati la bolla frantumata. I due strisciano fuori. Gregorius solleva di peso de Soya e lo porta fuori, come un bambino. — Nei Marines, signore — continua, senza neppure il fiatone per lo sforzo — noi dicevamo "un culo a paracqua".

De Soya si sente svenire. Il sergente lo depone sulla sabbia.

— Resista, Capitano! Santiddio, mi sente? Resista! — Gregorius grida.

— Modera il linguaggio, sergente — dice de Soya, sentendosi scivolare nell’incoscienza, ma incapace di resistere e riluttante a farlo. — Sono un prete, non dimenticarlo… Nominare il nome di Dio invano è peccato mortale. — Sprofonda nelle tenebre e non sa se ha detto o no ad alta voce l’ultima frase.

15

Fin da bambino, nelle brughiere, quando me ne stavo da solo a guardare il fumo dei fuochi di torba che s’alzava dal cerchio di carrozzoni e aspettavo che spuntassero le stelle e poi le osservavo, fredde e indifferenti nel cielo color lapislazzuli sempre più scuro, e m’interrogavo sul mio futuro, in attesa della chiamata che mi avrebbe portato al caldo e alla cena, ho sempre colto il lato ironico delle cose. Quanti eventi importanti passano rapidamente senza che al momento nessuno li capisca! Quanti istanti decisivi rimangono sepolti sotto l’assurdo! Lo vedevo già da bambino. Da allora l’ho visto per tutta la vita da adulto.

Mi diressi in volo verso il bagliore sempre più fioco dell’esplosione e a un tratto m’imbattei nella bambina, Aenea. Alla prima fuggevole occhiata avevo scorto due figure, la più piccola delle quali assaliva la più grande; ma quando sopraggiunsi, un attimo dopo, mentre la sabbia ululava e raspava l’ondeggiante tappeto hawking, trovai soltanto la bambina.

Ecco quale aspetto ciascuno di noi presentò all’altro in quel momento: la bambina, sconvolta e furibonda, occhi rossi e socchiusi per la sabbia o per la collera nei confronti di chissà cosa, manine strette a pugno, la camicia e il maglione troppo largo che svolazzavano come bandiere impazzite, capelli lunghi alla spalla (castani, ma con striature biondastre che avrei notato in seguito) arruffati e scompigliati, guance rigate dai residui di lacrime e di moccio, scarpe di tela con suola di gomma, da bambina, del tutto inadatte all’avventura in cui si era imbarcata, e uno zainetto da poco prezzo appeso alla spalla; per lei di sicuro ero uno spettacolo più barbaro, più folle: un giovanotto di ventisette anni, massiccio, muscoloso, dall’aria non molto sveglia, disteso bocconi sopra un tappeto volante, viso in gran parte nascosto dal fazzoletto colorato e dagli occhiali scuri, capelli corti, sporchi e irti nel vento, zaino come lei appeso alla spalla, giubbotto e calzoni sporchi di sabbia e inzaccherati.

La bambina sgranò gli occhi come se mi riconoscesse, ma impiegai solo qualche secondo per capire che aveva riconosciuto il tappeto hawking, non me.