— Non dovremmo andare nelle vasche di crio-fuga? — domandai.
— Perché? — replicò Aenea. — Vuoi perderti la parte divertente?
Rimasi perplesso. Ne avevo parlato con i cacciatori di altri pianeti e con gli istruttori militari: tutti avevano trascorso in crio-fuga il periodo a velocità C-più. Gli esseri umani hanno sempre passato così il tempo di viaggio fra le stelle. Avevo sentito parlare di allucinazioni, d’incubi a mente sveglia, di dolore insopportabile. Esposi proprio questo, in tono calmo per non allarmare nessuno.
— Mamma e zio Martin m’hanno detto che si può sopportare la velocità C-più — replicò Aenea. — Godersela, perfino. Basta farci l’abitudine.
— E gli Ouster hanno modificato questa nave per rendere più agevole l’esperienza — disse A. Bettik. Aenea e io sedevamo al basso tavolino di vetro al centro della biblioteca; l’androide era in piedi, di lato. Per quanto lo trattassi da pari a pari, A. Bettik continuava a comportarsi come un servitore. Allora avevo deciso di smetterla d’essere un cazzone egualitario su quel punto e di lasciare che l’androide si comportasse come preferiva.
«A dire il vero» intervenne la nave «le modifiche riguardano anche la possibilità d’accrescere il campo di contenimento, cosa che rende molto meno sgradevoli gli effetti collaterali del viaggio C-più.»
— Cosa sono esattamente gli effetti collaterali? — domandai. Non mi andava di far vedere quanto poco ne sapessi, ma ancora meno m’andava di sopportare disagi, se non era proprio indispensabile.
L’androide, la bambina e io ci guardammo. — Nei secoli scorsi ho fatto qualche viaggio interstellare — disse infine A. Bettik. — Ma sempre in crio-fuga. In magazzino, in realtà. Noi androidi viaggiavamo nella stiva merci, impilati come quarti di bue congelato, m’hanno detto.
La bambina e io ci guardammo, ora imbarazzati d’incrociare lo sguardo di quell’uomo dalla pelle azzurra.
La nave emise un rumore notevolmente simile a quello di una persona che si schiarisca la voce. «In realtà» disse «dalle mie osservazioni su passeggeri umani… che, lo ammetto, non sono affidabili perché…»
— …la tua memoria è confusa — terminammo insieme la bambina e io. Ci guardammo e scoppiammo a ridere. — Scusa, Nave — disse Aenea. — Continua.
«Stavo per dire che, dalle mie osservazioni, i principali effetti dell’ambiente C-più sugli organismi umani sono una certa confusione della vista, depressione mentale provocata dal campo e semplice noia. Ritengo che la fuga criogenica sia stata realizzata per i lunghi viaggi, ma sia usata per comodità anche in viaggi più brevi come il nostro.»
— E le tue… ah… modifiche Ouster migliorano questi effetti collaterali? — domandai.
«Sono progettate per questo» rispose la nave. «Noia esclusa, è ovvio. La noia è un peculiare fenomeno umano: non credo che sia stata trovata la cura per eliminarla.» Seguì un momento di silenzio, poi la nave soggiunse: «Raggiungeremo il punto di traslazione fra due minuti e dieci secondi. Tutti i sistemi funzionano al meglio. Per il momento non siamo inseguiti, ma la Sant’Antonio ci tiene sotto controllo sui rilevatori a lungo raggio.»
Aenea si alzò. — Andiamo giù a guardare la traslazione C-più.
— Da dove? — domandai. — Dalla piazzola olografica?
— No — rispose Aenea, già sulla scala. — Dall’esterno.
La nave spaziale aveva una loggia. Non lo sapevo. Ci si poteva trattenere lì anche mentre la nave saettava nel vuoto e si preparava a traslare alla pseudovelocità C-più. Non sapevo della loggia… e se l’avessi saputo, non ci avrei creduto.
— Per favore, estendi la loggia — aveva detto Aenea alla nave e la nave aveva esteso la loggia (comprendente anche lo Steinway) e noi avevamo varcato l’apertura che dava nello spazio. Be’, non proprio nello spazio, è logico; perfino io, il provinciale pastorello, sapevo che i timpani sarebbero esplosi, che gli occhi sarebbero schizzati dalle orbite, che il sangue sarebbe bollito all’istante, se fossimo usciti nel vuoto vero e proprio. Ma avevamo davvero l’impressione di uscire nel vuoto.
— Non ci sono pericoli? — domandai, appoggiandomi alla balaustra. Hyperion era un puntino luminoso simile a una stella, dietro di noi, e il suo sole era un globo splendente, a sinistra, ma la coda di plasma del motore a fusione, lunga decine di chilometri, ci dava l’impressione di stare precariamente appollaiati su di un altissimo pilastro azzurro. L’effetto era un chiaro stimolo all’acrofobia: l’illusione di stare senza difesa nello spazio creava qualcosa di simile all’agorafobia. Fino a quel momento non avevo mai saputo d’essere suscettibile a una qualsiasi fobia.
— Se il campo di contenimento cede per un secondo — disse A. Bettik — sotto questo carico gravitazionale e a questa velocità moriremo immediatamente. Poco importa se ci troviamo dentro la nave o fuori.
— E le radiazioni? — domandai.
— Il campo devia i raggi cosmici e le radiazioni solari pericolose — spiegò A. Bettik. — Inoltre attenua la luminosità del sole di Hyperion per consentirci di guardare quella stella senza diventare ciechi. A parte questo, consente di scorgere abbastanza bene l’intero spettro visibile.
— Già — dissi, poco convinto. Mi allontanai dalla balaustra.
«Trenta secondi alla traslazione» annunciò la nave. Anche là fuori, la sua voce pareva giungere da un’invisibile persona a mezz’aria.
Aenea si sedette al pianoforte e cominciò a suonare. Non riconobbi il brano, ma pareva musica classica… un pezzo del XXVI secolo, forse.
M’aspettavo, credo, che la nave parlasse di nuovo prima del reale momento della traslazione, che intonasse una sorta di conteggio alla rovescia dei secondi finali… ma non ci furono altri avvertimenti. Di colpo il motore Hawking prese il posto del motore a fusione; ci fu un momentaneo ronzio che a me parve provenire dalle mie stesse ossa; fui invaso e travolto da un terribile senso di vertigine, mi sentii come se mi rivoltassero, senza dolore ma senza requie; poi la sensazione sparì, prima che potessi realmente capirla.
Sparì anche lo spazio. Per spazio intendo la scena che guardavo meno d’un secondo prima: il vivido sole di Hyperion, il disco sempre più piccolo del pianeta stesso, il bagliore lungo lo scafo della nave, le poche stelle visibili in quel bagliore, perfino la colonna di fiamma azzurra sulla quale stavamo appollaiati… tutto sparito. Al loro posto c’era… è difficile, descriverlo.
La nave era sempre lì, incombeva "sopra e sotto" di noi… la loggia dove ci trovavamo pareva ancora solida… ma pareva che non ci fosse nessuna luce a colpirla. Mi rendo conto, mentre lo scrivo, di quanto suoni assurdo… dev’esserci luce riflessa, perché una cosa sia visibile… ma l’effetto fu proprio questo, come se una parte dei miei occhi avesse smesso di funzionare: anche se gli occhi registravano la forma e la massa della nave, la luce pareva mancare.
Al di là della nave, l’universo si era contratto in una sfera azzurra verso prua e in una sfera rossa dietro le pinne caudali. Avevo conoscenze scientifiche sufficienti per aspettarmi un effetto Doppler, ma quello era un falso effetto, perché fino al momento della traslazione C-più non avevamo affatto una velocità vicina a quella della luce e ora eravamo molto al di là di essa, nella piegatura Hawking. Nondimeno, i cerchi di luce azzurra e rossa (se guardavo con attenzione, distinguevo le stelle raggruppate in tutt’e due le sfere) ora migravano più lontano a prua e a poppa, si riducevano a minuscoli puntini di colore. Tra l’uno e l’altro, a riempire l’esteso campo visivo, c’era… niente. Con "niente" non intendo oscurità né tenebra. Intendo il vuoto. Intendo il senso di nauseante assenza di vista che si prova quando si cerca di guardare in un punto cieco. Intendo un nulla così intenso che la vertigine da esso indotta si mutò quasi all’istante in nausea dentro di me e mi straziò l’organismo, con la stessa violenza di pochi istanti prima, quando mi ero sentito rivoltato come un guanto.