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— Questi libri — disse l’androide — sono doppiamente interessanti come manufatti, poiché provengono da un’epoca in cui ogni informazione era istantaneamente disponibile a tutti.

Annuii. Da bambino, ascoltando i racconti di Nonna sui vecchi tempi, avevo provato a immaginare un mondo dove tutti portassero impianti e avessero accesso alla sfera dati quando volevano. Ovviamente, anche a quel tempo Hyperion non aveva una sfera dati… non aveva mai fatto parte della Rete. Ma per gran parte dei miliardi di cittadini dell’Egemonia la vita era di sicuro simile a un infinito stimolo-simulatore con dati visivi, auditivi e stampati. Non c’era da stupirsi se ai vecchi tempi la maggior parte delle persone non avesse mai imparato a leggere. La lotta contro l’analfabetismo era stata una delle prime mete della Chiesa e dei suoi amministratori della Pax, quando la società interstellare era stata ricucita, molto tempo dopo la Caduta.

Quel giorno, sul tappeto della biblioteca della nave, tra il luccichio dei pannelli di tek e di ciliegio tirati a lucido, ricordo d’avere preso dagli scaffali cinque o sei libri e di averli portati al tavolo di lettura.

Anche Aenea quel pomeriggio fece incursione nella biblioteca… e prese subito dallo scaffale Il crepuscolo della Terra. - A Jacktown non ne esistevano copie — disse — e zio Martin non mi lasciava leggere la sua, quando gli facevo visita. Però sosteneva che fosse l’unica opera da lui scritta, a parte i Canti non ancora terminati, meritevole d’essere letta.

— Di cosa parla? — domandai, senza alzare gli occhi dal romanzo di Delmore Deland che leggiucchiavo in quel momento. Tutt’e due mangiavamo delle mele, mentre leggevamo e parlavamo. A. Bettik era sceso di sotto.

— Gli ultimi giorni della Vecchia Terra — disse Aenea. — In realtà parla dell’infanzia troppo viziata di Martin, nella vasta tenuta di famiglia nella Riserva Nordamericana.

Posai il libro. — Secondo te, cos’è accaduto alla Vecchia Terra?

Aenea smise di mangiucchiare la mela. — Ai miei tempi tutti pensavano che il Grande Errore del buco nero del ’38 l’avesse divorata. Che fosse scomparsa. Kaput.

Annuii. — Molti lo credono ancora adesso, ma i Canti del vecchio poeta insistono a dire che il TecnoNucleo ha rubato la Vecchia Terra e l’ha trasferita da qualche parte…

— Nell’Ammasso Ercole o nella Nube di Magellano — disse Aenea e diede un altro morso alla mela. — Lo scoprì mia madre, quando indagava con mio padre sull’omicidio di cui lui era stato vittima.

Mi sporsi in avanti. — Ti va di parlare di tuo padre?

Aenea sorrise lievemente. — Perché non dovrei parlarne? Sono una sorta di mezzosangue, credo, figlia di una lusiana e di un clone cìbrido, ma la cosa non mi ha mai dato fastidio.

— Hai ben poco dei lusiani — dissi. I nativi di quel mondo ad alta gravità, Lusus, sono sempre di bassa statura e di costituzione massiccia; la bambina era piccola, ma d’altezza normale per un mondo a gravità standard; aveva capelli striati di biondo ed era snella. Solo i suoi occhi, castani e luminosi, mi ricordavano la Brawne Lamia descritta nei Canti.

Aenea rise, una risata piacevole. — Ho preso da mio padre — disse. — John Keats era basso, biondo e pelleossa.

Esitai un momento. — Hai detto d’avere parlato con tuo padre…

Aenea mi lanciò uno sguardo, con la coda dell’occhio. — Sì; e sai già che il Nucleo assassinò il suo corpo prima che io nascessi. Ma sapevi che mia madre portò per mesi la sua personalità in un disco d’iterazione Schrön impiantato dietro l’orecchio?

Annuii. Era nei Canti.

Aenea scrollò le spalle. — Ricordo d’avere parlato con lui.

— Ma non eri…

— …ancora nata — terminò Aenea. — Giusto. Quale conversazione può esserci fra la personalità di un poeta e un feto? Però abbiamo parlato. La sua personalità era ancora collegata al TecnoNucleo. Lui mi ha mostrato… be’, è una faccenda complessa, Raul. Credimi,

— Ti credo — dissi. Guardai in giro la biblioteca. — Sai cosa dicono i Canti? Che la personalità di tuo padre, dopo avere lasciato l’iterazione Schrön, stazionò per qualche tempo nell’IA di questa nave.

— Già — sorrise Aenea. — Ieri, prima d’andare a letto, ho chiacchierato con la nave per un’oretta. Papà era qui, è vero. La sua personalità è coesistita con la mente della nave, mentre il Console tornava nella Rete per controllare cos’era avvenuto dopo la Caduta. Ma non è qui, ora, e la nave non ricorda molto della sua permanenza qui e non ricorda niente della sua sorte… se lasciò la nave dopo la morte del Console o cosa… perciò non so se lui esiste ancora.

— Be’ — dissi, cercando di scegliere parole diplomatiche — il Nucleo non esiste più, quindi non vedo come possa esistere una personalità cìbrida.

— Chi lo dice, che il Nucleo non esiste?

Confesso d’essere rimasto turbato. — L’ultimo atto di Meina Gladstone e dell’Egemonia fu quello di distruggere i collegamenti teleporter, le sfere dati, l’astrotel e l’intera dimensione in cui esisteva il Nucleo — dissi alla fine. — Anche i Canti lo ammettono.

Aenea sorrideva ancora. — Oh, hanno fatto a pezzi i teleporter di base nello spazio e tutti gli altri hanno smesso di funzionare, d’accordo. E anche ai miei tempi le sfere dati erano svanite. Ma chi dice che il Nucleo è morto? Se hai spazzato via un paio di ragnatele, non per questo il ragno è di sicuro morto.

Confesso d’essermi guardato alle spalle per un attimo. — Quindi sei convinta che il TecnoNucleo esiste ancora? Che quelle IA tramano ancora contro di noi?

— Di trame non so niente, ma so che il Nucleo esiste.

— Come?

Aenea alzò un dito. — Per prima cosa, la personalità cìbrida di mio padre esisteva ancora dopo la Caduta, no? La base di quella personalità era una IA del Nucleo da loro fabbricata. Questo dimostra che il Nucleo si trovava ancora… da qualche parte.

Riflettei su queste parole. Come già ho accennato, i cìbridi, al pari degli androidi, per me erano essenzialmente una specie mitica. Sarebbe stata la stessa cosa se avessimo discusso delle caratteristiche fisiche dei leprecauni.

— In secondo luogo — proseguì Aenea, alzando due dita — mi sono messa in comunicazione con il Nucleo.

— Prima di nascere? — dissi, stupito.

— Sì — confermò Aenea. — E quando vivevo con mia madre a Jacktown. E dopo la morte di mamma. — Prese i libri e si alzò. — E stamattina.

La fissai, senza parole.

— Ho fame, Raul — disse lei, già sulla scala. — Vieni a vedere cosa riesce a mettere insieme per pranzo la cambusa di questa vecchia nave?

In breve tempo adottammo un programma quotidiano basato più o meno sui giorni e sulle notti di Hyperion. Cominciai a capire perché al tempo della Rete fosse stata così importante l’usanza della vecchia Egemonia di mantenere il sistema di ventiquattro ore della Vecchia Terra: da qualche parte avevo letto che quasi il novanta per cento dei mondi della Rete, di tipo terrestre o terraformati, aveva avuto giorni che rientravano con un’approssimazione di tre ore nel giorno standard della Vecchia Terra.

A Aenea piaceva ancora far uscire all’esterno la loggia e suonare il piano sotto il cielo dello spazio-Hawking; a volte uscivo anch’io e ascoltavo per qualche minuto, ma preferivo il senso di protezione che mi offriva l’interno della nave. Nessuno di noi si lamentava degli effetti dell’ambiente C-più, anche se li sentivamo: l’occasionale sbalzo d’emotività e d’equilibrio, il costante senso d’essere osservati da qualcuno e i sogni molto bizzarri. I miei sogni mi facevano svegliare col batticuore, con la bocca secca e con le lenzuola fradice di sudore, come farebbero solo i peggiori incubi. Ma non li ricordavo mai. Avrei voluto chiedere agli altri, ma A. Bettik non parlava mai dei suoi sogni (in realtà non sapevo nemmeno se gli androidi sognassero) e Aenea, pur ammettendo di fare sogni bizzarri e di ricordarli, non li descrisse mai.