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— Mi dispiace — mormorai e le strinsi ancora la spalla, sentendo sotto le dita la consistenza della vecchia camicia del Console. — Andrà tutto bene, vedrai.

Aenea annuì e mi prese la mano. La sua era ancora umida. Notai quanto fosse piccola, nella mia.

— Vieni con me in cambusa a prendere una tazza di latte e una fetta di torta di radice di chalmaì — mormorai. — È buona.

Scosse la testa. — Ora riuscirò a dormire, credo — disse. — Grazie, Raul. — Mi strinse di nuovo la mano, prima di staccarsi; in quel momento intuii la grande verità: la figlia di Brawne Lamia… Colei Che Insegna, il nuovo messia, qualsiasi cosa si sarebbe rivelata… era anche una bambina, una bambina che rideva per i buffi giochi a g-zero e che piangeva di notte.

Risalii senza far rumore le scale e mi fermai per dare ancora un’occhiata a Aenea, prima di sbucare con la testa all’altezza del piano superiore. La bambina, rannicchiata sotto la coperta, si era girata di nuovo dall’altra parte e i suoi capelli riflettevano solo una parte del bagliore della consolle posta sopra il suo cantuccio privato.

— Buonanotte, Aenea — bisbigliai, pur sapendo che non avrebbe udito. — Andrà tutto bene.

22

Il sergente Gregorius e i suoi due soldati aspettano nel vano del portello di sortita della Raffaele, già aperto, mentre il corriere classe Arcangelo s’avvicina alla nave spaziale non identificata che ha appena compiuto la traslazione da C-più. I tre indossano ingombranti tute spaziali blindate e portano a tracolla le carabine senza rinculo e le armi a energia: in pratica riempiono la camera stagna. Mentre si sporgono nello spazio, il sole di Parvati scintilla sui visori dorati.

«Bersaglio bloccato» dice nei loro auricolari la voce del Padre Capitano de Soya. «Distanza, cento metri, in riduzione.» La nave spaziale sottile come un ago, munita di pinne caudali, riempie il loro campo visivo, mentre la distanza che separa le due navi si riduce. Fra i due scafi compaiono confusamente i campi di contenimento difensivi che mandano lampi quando annullano i raggi ad alta energia e le scariche, più velocemente di quanto l’occhio non possa seguire. Il visore di Gregorius diventa opaco, torna trasparente, poi di nuovo opaco, per i lampi della battaglia ravvicinata.

«Bene, siamo dentro la portata minima delle loro lance» dice de Soya, sistemato nella cuccetta del Centro Comando Combattimento. «Via!»

Gregorius segnala con la mano e i suoi uomini si lanciano, scalciando nello stesso preciso istante. Gli agopropulsori sistemati negli zaini a reazione sputano minuscole fiamme azzurre per correggere la traiettoria.

«Campi di disgregazione… ora!» ordina de Soya.

I campi di contenimento si scontrano e si annullano a vicenda solo per alcuni secondi, ma non occorre altro: Gregorius, Kee e Rettig sono ora nell’ovale difensivo della nave sconosciuta.

«Kee» dice Gregorius, parlando sulla banda a raggio compatto, e la sagoma più piccola sposta i propulsori e si lancia verso la prua della nave in decelerazione. «Rettig.» L’altra tuta da combattimento accelera verso il terzo inferiore della nave. Gregorius aspetta gli ultimissimi secondi per eliminare la propria spinta in avanti, esegue una completa giravolta, spinge al massimo i propulsori e sente le sue pesanti suole toccare quasi in silenzio lo scafo. Attiva i magneti negli stivali, tasta il collegamento, allarga le gambe e poi si acquatta sullo scafo, tenendo il contatto con un solo stivale.

«Fatto» dice sul raggio compatto la voce del caporale Kee.

«Fatto» dice l’attimo dopo Rettig.

Il sergente Gregorius stacca dal cinturone il collare d’abbordaggio, lo sistema contro lo scafo, attiva il collante e rimane inginocchiato. Si trova all’interno di un cappio nero di diametro poco superiore al metro e mezzo.

«Conteggio da tre» dice nel microfono. «Tre… due… uno… azione.» Tocca il regolatore da polso e sobbalza, mentre un baldacchino di micropolimero molecolare rotea su dal cappio, si chiude sopra la sua testa e continua a dilatarsi intorno a lui. Nel giro di dieci secondi Gregorius si trova all’interno di un sacco trasparente lungo venti metri, pare una sagoma in armatura racchiusa in un gigantesco preservativo.

«Pronto» dice Kee. Rettig gli fa eco.

«In posizione» dice Gregorius, sbattendo contro lo scafo una carica e posando sul regolatore da polso il dito guantato. «Da cinque…» Ora la nave ruota sotto di loro, azionando quasi a caso i propulsori e i motori principali, ma la Raffaele la tiene bloccata nella micidiale stretta di un campo di contenimento e gli uomini sullo scafo non vengono sbalzati via. «Cinque… quattro… tre… due… uno… ora!»

Naturalmente la detonazione non provoca rumore, ma neppure lampo luminoso né rinculo. Un cerchio di scafo, del diametro di 120 centimetri, schizza all’interno. Gregorius scorge solo la traccia, esile come ragnatela, della sacca di micropolimero di Kee intorno alla curvatura dello scafo, vede la luce del sole colpirla, mentre la sacca si gonfia. Anche la sacca di Gregorius si gonfia come un gigantesco pallone, mentre l’aria dello scafo si precipita fuori della breccia e riempie lo spazio intorno a lui. Per cinque secondi Gregorius sente uno stridio d’uragano attraverso gli auricolari esterni, poi il silenzio, mentre lo spazio all’intorno (ora ricco di ossigeno e di azoto, secondo i sensori del casco) si riempie di polvere e di detriti espulsi dal breve sbalzo di pressione.

«Dentro… ora!» grida Gregorius, sganciando la carabina al plasma, senza rinculo. Si dà una spinta e si proietta dentro la nave.

Non c’è gravità. Il sergente rimane sorpreso (era pronto a colpire il ponte e a rotolare su se stesso), ma si adegua in un attimo e descrive un giro completo, guardandosi intorno.

Il locale pare una sala comune. Gregorius vede cuscini di poltrone, una sorta d’antiquato schermo video, scaffali con veri libri…

Un uomo sbuca dal pozzo centrale.

«Fermo!» grida Gregorius, usando le bande radio comuni e l’altoparlante incorporato nel casco. La figura, poco più d’un contorno, non si ferma. Ha in mano qualcosa.

Gregorius spara dal fianco. Il proiettile al plasma apre un foro di dieci centimetri nella figura. Sangue e viscere esplodono all’esterno del corpo che ruzzola e vari globuli schizzano il visore e la piastra pettorale corazzata del sergente. L’oggetto cade dalla mano del morto; Gregorius gli lancia un’occhiata, mentre con un calcio si avvicina al pozzo della scala. È un libro. — Merda — borbotta il sergente. Ha ucciso un uomo disarmato. Perderà qualche punto, per questo.

«Dentro, piano superiore, nessuno qui» trasmette Kee. «Scendo.»

«Sala motori» dice Rettig. «Un solo uomo qui. Ha cercato di scappare e ho dovuto bruciarlo. Nessun segno della bambina. Salgo.»

«Sarà nella sezione mediana o nella camera stagna» dice, brusco, il sergente, parlando al microfono. «Procedete con prudenza.» Le luci si spengono e la torcia del casco di Gregorius si accende automaticamente, come pure la pennaluce della carabina al plasma: raggi ben visibili nell’aria piena di polvere, di globuli di sangue, di oggetti galleggianti. Il sergente si ferma in cima alla scala.

Qualcuno o qualcosa viene alla deriva nella sua direzione. Gregorius sposta il casco, ma la luce della carabina al plasma illumina per prima la figura.

Non è la bambina. Gregorius ha una confusa impressione di una mole enorme, lame affilate, punte, troppe braccia e ardenti occhi rossi. Deve decidere in un secondo o meno: se scaglia dardi di plasma nel pozzo aperto, rischia di colpire la bambina. Se non reagisce, muore… artigli affilati già si protendono verso di lui.

Prima di fare il salto da nave a nave, Gregorius ha collegato alla carabina al plasma una neuroverga. Ora con un calcio si scansa, trova l’angolatura giusta e aziona la neuroverga.