"Perché cerco logica e razionalità in questa storia?" mi domandai in quel momento. "Finora non se n’è vista neanche l’ombra."
Quando Aenea era scesa nel ponte inferiore per fare la doccia dopo la nostra sensazionale partenza dal sistema di Parvati, la nave aveva cercato di rassicurare A. Bettik e me: «Niente paura, signori. Non vi avrei lasciati morire per la decompressione».
L’androide e io ci eravamo scambiati un’occhiata. Penso che tutt’e due ci chiedessimo in quel momento se la nave sapeva che cosa avrebbe fatto o se la bambina avesse qualche controllo speciale su di essa.
Mentre trascorrevano i giorni della seconda tappa del viaggio, mi ritrovai a rimuginare sulla situazione e sul modo in cui reagivo. Il guaio principale, mi resi conto, era stato il mio comportamento passivo, quasi non pertinente, per l’intero viaggio. Avevo ventisette anni, ero un ex soldato, uomo di mondo (anche se il mondo era solo il periferico Hyperion) e avevo lasciato che la bambina se la vedesse con l’unica vera emergenza che ci eravamo trovati ad affrontare. Capivo perché A. Bettik fosse rimasto così passivo in quella situazione; l’androide era, in fin dei conti, condizionato dalla bioprogrammazione e dalla plurisecolare abitudine a rimettersi alle decisioni degli uomini. Ma perché io ero stato un tale pezzo di legno? Martin Sileno mi aveva salvato la vita e mi aveva mandato in quella pazzesca missione per proteggere la bambina, per mantenerla in vita e per aiutarla ad andare dove volesse. Fino a quel momento non avevo fatto altro che pilotare un tappeto volante e starmene nascosto dietro un pianoforte, mentre la bambina se la vedeva con una nave da guerra della Pax.
In quei primi giorni fuori del sistema di Parvati, tutt’e quattro, nave inclusa, discutemmo della nave da guerra della Pax. Se Aenea aveva ragione, se il Padre Capitano de Soya si trovava su Hyperion all’apertura della Sfinge, allora la Pax aveva trovato il modo di prendere scorciatoie nello spazio Hawking. Le implicazioni di questo ragionamento erano tali da far rinsavire; peggio, anzi: mi spaventarono a morte.
Aenea non parve granché preoccupata. I giorni trascorsero e noi ci abbandonammo alla comoda, anche se un po’ oppressiva, routine di bordo: dopo cena Aenea suonava il piano, tutt’e tre frugavamo la biblioteca, controllavamo gli olofilm e i libri di bordo in cerca di qualche indizio riguardante dove la nave avesse portato il Console (c’erano diversi indizi, nessuno dei quali definitivo), giocavamo a carte di sera (Aenea era davvero un formidabile giocatore di poker) e di tanto in tanto facevamo esercizi fisici, per i quali chiedevo alla nave di stabilire a 1,3 g il campo di contenimento nel pozzo delle scale, correndo tre quarti d’ora su e giù per la scala a chiocciola alta come sei piani. Non so che cosa quell’esercizio mi facesse al resto del corpo, ma i polpacci, le cosce e le caviglie in breve parvero appartenere a un elefantoide d’un pianeta tipo Giove.
Quando si rese conto che il campo poteva essere modificato su misura anche limitandolo a piccole sezioni della nave, Aenea diventò incontrollabile. Cominciò a dormire in una bolla a gravità zero nel ponte di crio-fuga. Scoprì che il tavolo nella biblioteca poteva essere mutato in tavolo da biliardo e pretese di fare almeno due partite al giorno… ogni volta sotto un diverso carico gravitazionale. Una sera, mentre leggevo nel ponte di navigazione, udii un rumore, scesi nel ponte della piazzola olografica e scoprii che lo scafo aveva un’apertura a iride, che la loggia era all’esterno, ma senza il pianoforte, e che una gigantesca sfera d’acqua, forse di otto o dieci metri di diametro, galleggiava fra la balaustra e il campo di contenimento esterno.
— Che diavolo! — esclamai.
— È uno spasso! — disse una voce dall’interno della bolla pulsante d’acqua in movimento. Una testa dai capelli bagnati sbucò in superficie, penzolando capovolta a due metri dal pavimento della loggia. — Vieni dentro! L’acqua è calda.
Mi scostai da quell’apparizione, appoggiandomi alla balaustra e cercando di non pensare a che cosa sarebbe accaduto se per un secondo il campo localizzato della bolla fosse venuto a mancare.
— A. Bettik l’ha visto? — dissi.
Aenea si strinse nelle spalle. I pirotecnici frattali pulsavano e si ripiegavano al di là della loggia, lanciando sulla sfera d’acqua colori e riflessi incredibili. La sfera stessa era una grande bolla azzurra con chiazze più chiare sulla superficie e all’interno, dove si muovevano bolle d’aria. Mi ricordava le fotografie della Vecchia Terra.
Aenea ritrasse la testa, divenne una sagoma sbiadita che per un momento agitò i piedi nell’acqua, riemerse cinque metri più su lungo la curvatura. Gocce d’acqua schizzarono in libertà e ricaddero sulla sfera (a càusa del differenziale dei campi, immaginai) spiaccicandosi e formando complessi cerchi concentrici che incresparono la superficie del globo d’acqua.
— Vieni dentro — ripeté Aenea. — Dico sul serio!
— Non ho il costume da bagno.
Aenea galleggiò un secondo, si girò sullo stomaco, si tuffò di nuovo. Quando riemerse, a testa in giù rispetto al mio punto di vista, disse: — E chi ce l’ha, il costume? Non ti serve!
Sapevo che non scherzava, perché durante il tuffo avevo visto le sue vertebre risaltare sotto la chiara pelle della schiena e le sue natiche ancora da bambina riflettere la luce dei frattali come due piccoli funghi che sporgessero da uno stagno. Tutto sommato, dal punto di vista sessuale lo spettacolo del posteriore della dodicenne nostro futuro messia era eccitante quasi quanto la proiezione delle diapositive dei nuovi pronipoti di zia Merth nella vasca da bagno.
— Vieni dentro, Raul! — disse di nuovo Aenea e si tuffò verso la parte opposta della sfera.
Esitai solo un secondo, prima di togliermi la veste da camera. Tenni non solo gli slip, ma anche la lunga maglietta che spesso usavo come pigiama.
Per un momento rimasi sulla loggia, senza la minima idea di come entrare nella sfera alcuni metri più in alto. Poi udii la voce di Aenea giungere da qualche parte lungo l’arco superiore della bolla. — Salta, tonto!
Saltai. La transizione a g-zero iniziò circa un metro e mezzo più in alto. L’acqua era maledettamente fredda.
Girai su me stesso, mandai un grido per il freddo, sentii contrarsi ogni parte del corpo in grado di contrarsi e cominciai a dibattermi nel tentativo di tenere fuori la testa. Non fui sorpreso, quando A. Bettik uscì sulla loggia per vedere che cos’era tutto quel trambusto. L’androide incrociò le braccia e si appoggiò alla balaustra, accavallando i piedi.
— L’acqua è calda! — mentii, battendo i denti. — Vieni dentro!
L’androide sorrise e scosse la testa come un genitore paziente. Scrollai le spalle, girai su me stesso e mi tuffai.
Impiegai un paio di secondi a ricordare che il nuoto è molto simile al movimento in gravità zero e che quindi galleggiare a g-zero è molto simile a nuotare normalmente. Comunque la resistenza dell’acqua rendeva l’esperienza più simile al nuoto che al movimento in assenza di gravità, anche se c’era il divertimento aggiuntivo d’incontrare nella sfera una bolla d’aria e di fermarsi a tirare una boccata, prima di riprendere a nuotare sott’acqua.
Dopo qualche istante di capriole dovute al disorientamento, giunsi dentro una bolla larga un metro, mi fermai prima di ruzzolare nella sfera e guardai sopra di me, dove emergevano la testa e le spalle di Aenea. La bambina mi guardò dall’alto e agitò la mano. Sul petto nudo aveva la pelle d’oca, o per l’acqua fredda o per l’aria ancora più fredda.
— Uno spasso, eh? — disse, scrollandosi acqua dal viso e spingendo indietro i capelli. Bagnati, parevano d’un castano più scuro. Guardai la bambina e cercai di scorgere in lei la madre, l’investigatrice lusiana dai capelli neri. Inutile: non avevo mai visto un’immagine di Brawne Lamia, avevo solo sentito come la descriveva il poeta nei Canti.