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Come un’onda di tenebra.

Un’onda di tenebra che mi portò via.

4

Mi svegliai e non mi sorpresi d’essere ancora vivo. Immagino che ci si sorprenda solo se ci si sveglia morti. A ogni modo, mi svegliai senza alcun fastidio, a parte un vago formicolio alle estremità; per un paio di minuti rimasi disteso a guardare la luce del sole che strisciava lungo un ruvido soffitto a intonaco… finché non fui scosso da un pensiero fulminante.

"Un momento" pensai "non sono stato… non mi hanno…?"

Mi alzai a sedere, ora completamente sveglio, e mi guardai intorno. L’impressione che la condanna a morte fosse stata un sogno, se ancora mi restava, fu subito eliminata dalle banali caratteristiche dell’ambiente. La stanza era a forma di focaccia, con una curva parete di pietra tinta di bianco e uno spesso soffitto a intonaco. Il letto era l’unico mobile e il pesante lenzuolo, un tempo bianco, s’intonava all’intonaco e alla pietra. C’era una robusta porta di legno… chiusa… e una finestra ad arco aperta all’aria. Un’occhiata al cielo color lapislazzuli mi rivelò che mi trovavo ancora su Hyperion. Ma quella non era certo la prigione di Port Romance: la pietra era troppo vecchia, le finiture della porta erano troppo decorative, la stoffa del lenzuolo era di qualità troppo buona.

Mi alzai, scoprii d’essere nudo, andai alla finestra. La brezza autunnale era pungente, ma il sole mi scaldò. Mi trovavo in una torre di pietra. I gialli chalma e il fitto intrico di bassi weir intrecciavano un solido baldacchino di cime d’albero su per le montagne fino all’orizzonte. Semprazzurri crescevano sulle scarpate di granito. Scorgevo altre mura, bastioni, una torre circolare che scompariva lungo la cresta dove si alzava quella in cui mi trovavo. I muri parevano antichi. Il tipo di costruzione e lo stile architettonico appartenevano a un’epoca ricca d’abilità e di gusto, che risaliva a molto prima della Caduta.

Indovinai subito dove mi trovavo: i chalma e i weir indicavano che ero sempre nel continente meridionale, Aquila; l’eleganza degli edifici in rovina parlava della città abbandonata di Endymion.

Non ero mai stato nella città da cui la mia famiglia aveva preso il cognome, ma l’avevo sentita descrivere molte volte da Nonna, quella che nel clan raccontava le storie. Endymion era stata una delle prime città fondate su Hyperion dopo il disastroso atterraggio della navetta, circa sette secoli fa. Fino alla Caduta, era stata famosa per la sua elegante università, un gigantesco edificio a forma di castello che sovrastava la città vecchia, più in basso. Il bisnonno del bisnonno di Nonna era stato professore in quella università, finché l’esercito della Pax non aveva requisito l’intera regione centrale di Aquila, costringendo migliaia di persone a fare fagotto.

E adesso ero lì.

Un uomo calvo, dalla pelle azzurra e dagli occhi blu cobalto, entrò nella stanza, posò sul letto due capi di biancheria e un semplice vestito che pareva di cotone fatto in casa, e mi disse: — Prego, si vesta.

Mentre usciva, rimasi a fissarlo in silenzio. Pelle azzurra. Occhi blu cobalto. Totale assenza di peli. Lo sconosciuto era di sicuro un androide, il primo che avessi mai visto. Se me l’avessero domandato, avrei risposto che su Hyperion non erano rimasti androidi. Anche prima della Caduta era illegale bioprodurli; secoli fa erano stati importati dal leggendario re Billy il Triste per costruire la maggior parte delle città del continente settentrionale, ma non avevo mai sentito dire che nel nostro mondo ne esistessero ancora. Scossi la testa e mi vestii. L’abito, malgrado io abbia spalle insolitamente larghe e gambe più lunghe della media, pareva fatto su misura per me.

Quando l’androide tornò, ero di nuovo alla finestra. Lui si fermò sulla soglia e mi rivolse un gesto. — Da questa parte, prego, signor Endymion.

Dominai l’impulso di fare domande e lo seguii su per la scala interna della torre. La stanza in cima occupava l’intero piano. La luce del tardo pomeriggio entrava dalle vetrate dipinte di giallo e di rosso. Almeno una finestra era aperta, perché dal basso proveniva il fruscio delle fronde mosse dal vento che soffiava dalla valle.

La stanza era intonacata di bianco e spoglia come la mia cella, a parte un gruppo di attrezzature mediche e di banchi di comando per ricetrasmittenti posto al centro. L’androide uscì e si chiuse alle spalle la pesante porta; impiegai qualche istante per accorgermi che fra tutte quelle apparecchiature c’era un essere umano.

Almeno, pensai che fosse un essere umano.

L’uomo si trovava su un lettino di flussoschiuma sospeso a mezz’aria e regolato per fungere da poltrona. Cannule, fleboclisi, cavetti di monitoraggio e tubicini che parevano di sostanza organica andavano dalle apparecchiature all’essere avvizzito seduto sul lettino. Ho detto avvizzito, ma in realtà quell’uomo pareva quasi mummificato, con la pelle rugosa come il cuoio d’un vecchio giaccone, il cranio calvo e cosparso di macchie, braccia e gambe tanto emaciate da parere un residuo degli arti. Tutto, nella posizione di quell’uomo, mi faceva pensare a un grinzoso e implume pulcino caduto dal nido. La sua pelle, simile a pergamena, aveva una sfumatura azzurrina che per un attimo mi ricordò gli androidi; poi notai la diversa tonalità d’azzurro, la debole luminosità dei palmi, delle costole e della fronte; capii allora di trovarmi davanti a un uomo in carne e ossa, che aveva goduto… o patito… secoli di trattamento Poulsen.

Ormai più nessuno si sottopone al trattamento Poulsen. La relativa tecnologia scomparve con la Caduta, al pari degli indispensabili materiali grezzi provenienti da pianeti perduti nel tempo e nello spazio. Almeno, così credevo. Eppure avevo sotto gli occhi una creatura con un’età di parecchi secoli, alla quale l’ultimo trattamento Poulsen era stato somministrato da non più di qualche decennio.

Il vecchio aprì gli occhi.

Da allora ho visto altri occhi dallo sguardo altrettanto intenso, ma niente in vita mia m’aveva preparato all’impressione che provai in quel momento. Credo d’essere arretrato d’un passo.

— Vieni più vicino, Raul Endymion. — La voce pareva il rumore di una lama spuntata che sfregasse su pergamena. Le labbra si muovevano come il becco d’una tartaruga.

Mi avvicinai e mi fermai quando un quadro di comando si frappose tra me e quella creatura mummificata. Il vecchio batté le palpebre e sollevò la mano ossuta che pareva troppo pesante per quel polso ridotto a fuscello. — Sai chi sono? — domandò, con voce debole come bisbiglio.

Scossi la testa.

— Sai dove ti trovi?

Trassi un respiro. — A Endymion — risposi. — Nell’università abbandonata, credo.

Le rughe intorno alla bocca sdentata si allargarono in un sorriso. — Ottimo — disse il vecchio. — Hai riconosciuto il cumulo di pietre che diede il nome alla tua famiglia. Ma non sai chi potrei essere?

— No.

— E non vuoi sapere come sei sopravvissuto all’esecuzione?

Rimasi fermo come un soldato sul riposo e aspettai.

Il vecchio sorrise di nuovo. — Ottimo, davvero. Tutto arriva a colui che aspetta. E poi i particolari non spiegherebbero molto… bustarelle ai livelli più alti, uno storditore al posto della neuroverga, altre bustarelle a chi avrebbe certificato la morte ed eliminato il cadavere. Non siamo interessati al "come", vero, Raul Endymion?

— No — dissi infine. — Perché?

Il becco di tartaruga ebbe una contrazione, la grossa testa si mosse in un cenno d’assenso. Notai ora che il viso del vecchio, malgrado i danni provocati dai secoli, aveva ancora tratti netti e spigolosi… un’aria da satiro.