La Caduta della Rete dei Mondi e del suo sistema di teleporter aveva frazionato il Concourse in mille segmenti; per lo stesso motivo, il Teti aveva semplicemente cessato d’esistere: i portali di collegamento erano diventati inutili e l’unico fiume su cento mondi si era riconvertito in cento fiumi più piccoli che non si sarebbero mai più riuniti. Perfino il vecchio poeta seduto davanti a me aveva descritto la morte del Teti. Ricordavo i versi dei Canti, come li recitava Nonna:
— Vieni più vicino — mormorò il vecchio poeta, movendo ancora il dito giallastro per chiamarmi. Mi chinai su di lui. Il respiro di quella vecchissima creatura pareva vento secco che uscisse da una tomba spalancata: privo di odore, ma antico, in un certo modo richiamava alla mente secoli dimenticati. Il poeta bisbigliò:
Ritrassi la testa e annuii, come se il vecchio avesse detto qualcosa d’assennato. Era chiaramente pazzo.
Quasi m’avesse letto nel pensiero, il vecchio ridacchiò. — Spesso m’hanno definito pazzo, quelli che sottovalutano il potere della poesia. Non decidere subito, Raul Endymion. Ci rivedremo più tardi a cena e concluderò la descrizione della sfida. Decidi dopo. Per ora… riposa! La morte e la risurrezione t’avranno stancato di sicuro. — S’ingobbì ed emise quel suono secco e gorgogliante che ormai riconoscevo come risata.
L’androide mi riaccompagnò nella mia stanza. Dalle finestre della torre colsi rapidi scorci di corti interne e di edifici aggiunti. Vidi anche un altro androide, anch’esso maschio, camminare davanti alle vetrate verticali, dall’altra parte del cortile.
La mia guida aprì la porta e arretrò d’un passo. Mi resi conto che non sarei stato chiuso nella stanza: non ero prigioniero.
— Il suo abito da sera è pronto, signore — disse l’androide. — Naturalmente lei è libero di andarsene o di girare a piacimento nella zona della vecchia università. Mi permetto però d’avvertirla, signor Endymion, che nella foresta e nelle montagne qui intorno ci sono animali pericolosi.
Annuii e sorrisi. Gli animali pericolosi non m’avrebbero impedito di andarmene, se avessi voluto. Al momento, non volevo.
Allora l’androide si girò per andarsene e io, agendo d’impulso, mossi un passo e feci un’azione che avrebbe cambiato per sempre il corso della mia vita.
— Un momento — dissi. Tesi la mano. — Non siamo stati presentati. Raul Endymion.
Per un poco l’androide si limitò a guardare la mia mano tesa e in quel momento fui sicuro d’avere infranto chissà quale protocollo. In fin dei conti, secoli fa, quando erano stati biocostruiti per essere impiegati nell’espansione dell’Egira, gli androidi erano considerati creature un po’ inferiori alla razza umana. Poi l’uomo artificiale mi strinse la mano e la scosse con forza. — A. Bettik — disse in tono dimesso. — Lieto di conoscerla.
A. Bettik. Il nome mi ricordò qualcosa che non riuscii a precisare. — Mi piacerebbe parlare con te, A. Bettik — dissi. — Apprendere altri particolari su… su di te e su questo posto e sul vecchio poeta.
L’androide alzò gli occhi e nel suo sguardo mi parve di scorgere un lampo come di divertimento. — Sì, signore — disse. — Sarei felice di parlare con lei. Purtroppo dovremo rimandare a più tardi, perché al momento devo sovrintendere a diversi incarichi.
— A più tardi, allora. La considero una promessa.
A. Bettik annuì e scese la scala della torre.
Entrai nella mia stanza. A parte il letto rifatto e un elegante abito da sera ben piegato, la stanza era uguale a prima. Andai alla finestra e guardai al di là delle rovine dell’Università di Endymion. Alti semprazzurri stormivano nella fresca brezza. Foglie viola cadevano dal boschetto di weir accanto alla torre e frusciavano sulla pavimentazione a lastre di pietra, venti metri più in basso. Foglie di chalma spargevano nell’aria la caratteristica fragranza di cinnamomo. Ero cresciuto a qualche centinaio di chilometri da lì, verso nordest, nelle brughiere di Aquila, fra quelle montagne e la zona conosciuta come il Becco, ma qui la gelida freschezza dell’aria di montagna era nuova per me. Il cielo pareva di un turchese più intenso di quanto non avessi mai visto nelle brughiere e nelle pianure. Mi riempii i polmoni dell’aria autunnale e sorrisi: qualsiasi bizzarria mi riservasse il destino, ero maledettamente felice d’essere vivo.
Lasciata la finestra, mi diressi alla scala della torre per scendere a dare un’occhiata agli edifici universitari e alla città dalla quale la mia famiglia aveva preso il cognome. Per quanto pazzo fosse il vecchio, la conversazione durante la cena sarebbe stata di sicuro interessante.
A un tratto, quando ero quasi in fondo alla scala, mi fermai di colpo.
A. Bettik. Ora ricordavo. Il nome proveniva dai Canti. A. Bettik era l’androide che aveva pilotato la chiatta a levitazione Benares a nordest dalla città di Keats nel continente Equus, su per il fiume Hoolie, al di là della stazione fluviale Naiade, delle Chiuse Karla e della Ceppaia Doukhobor, fin dove il fiume navigabile terminava nell’Orlo. Dall’Orlo i pellegrini avevano proseguito attraverso il mar d’Erba. Ricordavo d’avere ascoltato da bambino quel racconto e d’essermi domandato perché A. Bettik fosse l’unico androide di cui si riportava il nome e che fine avesse fatto, dopo che i pellegrini l’avevano lasciato sull’Orlo. Per più di vent’anni avevo dimenticato quel nome.
Scossi la testa e mi domandai se il matto non ero io, anziché il vecchio poeta; poi uscii nella luce del tardo pomeriggio per esplorare Endymion.
5
Nello stesso momento in cui prendo commiato da A. Bettik, a seimila anni luce di distanza, in un sistema stellare noto solo con il numero del Nuovo Catalogo Galattico e con le coordinate di navigazione, una task force della Pax, composta di tre navi torcia per assalti rapidi, guidata dal Padre Capitano Federico de Soya, è impegnata a distruggere una foresta orbitale degli Ouster. Gli alberi non hanno difese contro le navi da guerra della Pax: lo scontro si può definire più esattamente un massacro, non una battaglia.
A questo punto devo dare qualche spiegazione. Non sto facendo ipotesi su questi eventi: sono accaduti proprio come li descrivo. Non sto facendo neppure estrapolazioni né congetture sulle scene che condividerò con te, quando ti racconterò che cosa fecero, in assenza di testimoni, il Padre Capitano de Soya o gli altri protagonisti. O che cosa pensarono. O quali emozioni provarono. Queste cose sono vere alla lettera. In seguito ti spiegherò come sono giunto a conoscerle senza il minimo sospetto di distorsione; ma per il momento ti chiedo di accettarle per ciò che sono: pura verità.
Le tre navi torcia della Pax passano, con una decelerazione superiore a 600 g, da velocità relativistiche a velocità planetarie: un salto che da secoli gli spaziali chiamano "marmellata di lamponi", riferendosi ovviamente al fatto che, se il campo di contenimento interno dovesse cedere per un solo microsecondo, l’equipaggio diverrebbe poco più d’uno strato di marmellata di lamponi sulle paratie.