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De Soya inarca il sopracciglio in risposta all’occhiata interrogativa del suo ufficiale in seconda. Sulla banda di comando dice: «Benissimo, Madre Comandante. Ordini alle tre navi di uniformare la velocità. Appronti una squadra d’abbordaggio. Voglio che i serbatoi di crio-fuga siano trasbordati e che la risurrezione sia completata per le ore zero-sei-tre-zero. Porga i miei complimenti al capitano Hearn della Melchiorre e alla Madre Capitano Boulez della Gaspare. Dica loro di presentarsi da me sulla Baldassarre per una riunione con i corrieri alle zero-sette-zero-zero.»

Esce con un passo dallo spazio tattico e torna nella realtà del Tre-C. Stone e gli altri continuano a fissarlo.

— Svelti — dice de Soya. Si stacca dal bordo del display, si dà una spinta verso la porta della sua cabina privata e s’infila nell’apertura circolare. — Svegliatemi quando i corrieri saranno risuscitati — dice alle pallide facce che ancora lo guardano, nei pochi secondi che la porta a diaframma impiega per chiudersi.

6

Camminai per le vie di Endymion e cercai d’affrontare il fatto che ero vissuto, ero morto ed ero di nuovo vivo.

Voglio precisare che gli eventi… il processo, l’esecuzione, il bizzarro incontro con il leggendario poeta… non mi lasciavano freddo come questo resoconto potrebbe far credere. Una parte di me era scossa fin nell’intimo. Avevano cercato di uccidermi! Volevo dare la colpa alla Pax, ma i tribunali non erano emanazione della Pax… non direttamente, almeno. Hyperion aveva il suo Consiglio Autonomo e i tribunali di Port Romance erano istituiti secondo i nostri metodi. La pena capitale non era un’inevitabile sentenza della Pax, soprattutto in quei pianeti dove la Chiesa governava per mezzo della teocrazia, ma un residuo dei vecchi tempi coloniali di Hyperion. Il rapido processo, l’inevitabile risultato e l’esecuzione sommaria erano, al massimo, la conferma che i pezzi grossi dell’economia di Hyperion e di Port Romance avevano terrore di spaventare i turisti provenienti da altri pianeti della Pax. Io ero un bifolco, una guida per cacciatori che aveva ucciso il ricco turista assegnato alle mie cure: dovevo servire da pubblico esempio. Nient’altro. Non dovevo prenderlo come un affronto personale.

Lo ritenni invece un affronto più che personale! Mi soffermai fuori della torre, sentendo il calore del sole riflettersi dalle larghe pietre che lastricavano il cortile, e alzai lentamente le mani. Tremavano. Troppi eventi si erano susseguiti troppo rapidamente e la mia forzata calma durante il processo e il breve periodo precedente l’esecuzione era stata troppo per me.

Scossi la testa e camminai lentamente fra le rovine dell’università. La città, Endymion, era stata costruita sul ciglio di una montagna e l’università si trovava ancora più in alto lungo la cresta, per cui il panorama verso sud e verso est era magnifico. Nella valle, foreste di chalma splendevano di giallo vivido. Il cielo azzurro era privo di scie di condensazione e di traffico aereo. La Pax, lo sapevo, non aveva alcun interesse per Endymion, mentre invece sorvegliava con i suoi soldati la regione dell’altopiano Punta d’Ala, a nordest, e con i robot raccoglieva ancora quegli eccezionali simbionti, i crucimorfi; ma questa parte del continente era stata vietata per tanti di quei decenni che ora pareva una regione nuova, selvaggia.

In dieci minuti d’ozioso girovagare mi resi conto che solo la torre e gli edifici circostanti parevano occupati. Il resto dell’università era in uno stato di completa rovina… le grandi aule erano aperte agli elementi, il centro medico era stato saccheggiato secoli prima, i campi da gioco erano invasi dalle erbacce, la cupola dell’osservatorio era crollata… e la città più in basso lungo la montagna pareva ancora più derelitta. Grovigli di legno weir e di rampicanti kudzu si erano impadroniti d’interi isolati.

Capivo che ai suoi tempi l’università era stata molto bella: edifici post-Egira e neo-gotici erano stati costruiti con blocchi d’arenaria delle cave situate poco lontano nelle colline ai piedi dell’altopiano Punta d’Ala. Tre anni prima, quando avevo lavorato come assistente del famoso artista di paesaggi, Avrol Hume, facendo quasi tutto il lavoro pesante mentre lui ridisegnava le tenute della Prima Famiglia lungo la prestigiosa costa del Becco, la richiesta più frequente riguardava le "stravaganze", surrogati di rovine posti intorno a un laghetto o in una foresta o in cima a un colle. Avevo raggiunto una certa abilità nel disporre vecchie pietre in artificioso stato di disfacimento per simulare rovine (molte delle quali assurdamente più antiche della razza umana su quel mondo della Periferia), ma nessuna delle stravaganze di Hume era splendida come queste rovine vere. Vagai fra le ossa di quella che un tempo era stata una grande università, ammirai l’architettura e pensai alla mia famiglia.

Gran parte delle famiglie indigene aggiungeva per tradizione al proprio nome quello di una città locale; e la mia famiglia era davvero indigena, discendeva dai primi pionieri giunti su navi coloniali quasi sette secoli prima… cittadini di terza classe nel nostro stesso mondo. Di terza classe adesso, dopo l’arrivo degli stranieri della Pax e dei coloni dell’Egira, giunti due secoli dopo i miei antenati. Allora il mio popolo era vissuto e aveva lavorato in quelle valli e fra quelle montagne. Per la maggior parte, ne ero sicuro, i miei parenti indigeni avevano faticato in lavori servili, come mio padre, prima della sua morte prematura quando io avevo otto anni, come mia madre fino alla sua morte, cinque anni dopo, e come me fino a questa settimana. Mia nonna era nata dieci anni dopo che la Pax aveva fatto sloggiare tutti da quelle regioni; ma Nonna era tanto vecchia da ricordare i giorni in cui i nostri clan familiari vagavano fino all’altopiano Punta d’Ala e lavoravano nelle piantagioni di fibroplastica a sud di Endymion.

Non avevo l’impressione di tornare a casa. La mia casa era la gelida brughiera a nordest. Le paludi a nord di Port Romance erano state invece il luogo dove avevo scelto di vivere e di lavorare. Questa città e questi edifici universitari non avevano mai fatto parte della mia vita e per me non avevano più importanza delle fantastiche storie dei Canti del vecchio poeta.

Ai piedi di una torre mi fermai per riprendere fiato e meditare su quest’ultimo pensiero. Se l’offerta del poeta era reale, per me ora le "fantastiche storie dei Canti" avrebbero avuto importanza. Pensai a Nonna, a come recitava quel poema… ricordai le notti passate a badare alle pecore nelle montagne del nord, i carrozzoni a batteria raccolti in cerchio, i bassi fuochi di cottura del tutto insufficienti a diminuire lo splendore delle costellazioni e degli sciami di meteore… ricordai il tono lento e misurato di Nonna che terminava ogni stanza e aspettava che gliela ripetessi, ricordai la mia impazienza (avrei preferito leggere un libro a lume di lanterna) e sorrisi al pensiero che stasera avrei cenato con l’autore di quei versi. Anzi, il vecchio poeta era addirittura uno dei sette pellegrini di cui parlava il poema.

Scossi di nuovo la testa. Troppi eventi. Troppo in fretta.

C’era qualcosa di bizzarro, nella torre. Più larga e più massiccia di quella in cui mi ero svegliato, aveva una sola finestra, un architrave aperto, a trenta metri da terra. Cosa ancora più interessante, un muro di mattoni sostituiva la porta originaria. Con l’occhio allenato da stagioni trascorse a sistemare mattoni e pietre sotto la guida di Avrol Hume, calcolai che la porta era stata chiusa prima che tutti abbandonassero quella zona, un secolo fa… ma non molto di più.