All’improvviso ci fu vero movimento: lo scafo si ripiegò… senza alzarsi col movimento meccanico di certi portali da me visti e di sicuro senza ruotare su cardini; si ripiegò su se stesso, semplicemente, come labbra che scoprano i denti.
Si accesero delle luci. Un corridoio interno, il cui soffitto e le cui pareti erano organici come la fuggevole visione di un collo d’utero meccanico, brillò di luce soffusa.
Esitai circa tre nanosecondi. Per anni la mia vita era stata tranquilla e prevedibile come quella della maggior parte della gente. L’ultima settimana avevo accidentalmente ucciso un uomo, ero stato condannato e giustiziato, mi ero risvegliato nella storia preferita di Nonna. Perché fermarmi lì?
Entrai nella nave spaziale. La porta si ripiegò alle mie spalle, simile a una bocca affamata che si chiuda sopra un pezzetto di cibo.
Il corridoio era diverso da come mi sarei aspettato. Avevo sempre creduto che l’interno dei veicoli spaziali fosse simile alla stiva delle imbarcazioni per il trasporto truppe che avevano trasferito a Ursus il nostro reggimento della Guardia Nazionale: metallo grigio, bulloni, portelli chiusi da grappe, sibilanti tubazioni di vapore. Lì non si vedeva niente di simile. Il corridoio era liscio, ricurvo, quasi informe; le pareti erano rivestite d’ottimo legno, tiepido e organico come carne. Se c’era una camera stagna, non l’avevo vista. Luci nascoste si accendevano man mano che avanzavo e si spegnevano dopo il mio passaggio, lasciandomi in una piccola pozza di luce, con il buio davanti e dietro. La nave non poteva avere un diametro superiore ai dieci metri, ma la lieve curvatura del corridoio dava l’impressione che fosse più ampia di quanto non sembrasse dall’esterno.
Il corridoio terminava in quello che doveva essere il centro della nave: un pozzo con al centro una scala a chiocciola metallica che si perdeva nel buio, in alto e in basso. Posai il piede sul primo gradino e dall’alto provenne luce. Immaginavo che le parti più interessanti della nave si trovassero in alto e perciò iniziai la salita.
Il primo ponte occupava l’intera sezione della nave e conteneva un’antiquata piazzola di proiezione olografica del tipo che avevo visto in vecchi libri, alcune sedie e alcuni tavolini in uno stile che non conoscevo e un pianoforte a coda. Qui dovrei dire che neppure una persona su diecimila, nata su Hyperion, avrebbe riconosciuto in quel mobile un pianoforte… e soprattutto un pianoforte a coda. Sia mia madre sia Nonna erano appassionate di musica e un pianoforte riempiva gran parte dello spazio di uno dei nostri carrozzoni a batteria. Molte volte avevo sentito zii e nonno lamentarsi dell’ingombro e del peso dello strumento, parlando di tutti i joule d’energia sprecati per trasportare nelle brughiere di Aquila quel pesante aggeggio pre-Egira e del comune buon senso di tenere invece un sintetizzatore tascabile in grado di creare la musica di qualsiasi pianoforte e di ogni altro strumento. Ma mia madre e Nonna erano ostinate: niente al mondo avrebbe uguagliato il suono di un vero pianoforte, anche se andava accordato dopo ogni spostamento. E il nonno e gli zii non si lamentavano, quando di notte, intorno al fuoco, Nonna suonava Rachmaninoff o Bach o Mozart. Da lei imparai molte cose sui migliori pianoforti della storia… compresi i pianoforti a coda pre-Egira. Ora ne avevo uno sotto gli occhi.
Non badai alla piazzola di proiezione e al mobilio, non badai alla parete trasparente che mostrava solo le scure pietre della torre: mi accostai al pianoforte. La scritta dorata sopra la tastiera diceva: STEINWAY. Emisi un fischio e accarezzai i tasti, senza il coraggio di premerne uno. Secondo Nonna, quella ditta aveva smesso di fabbricare pianoforti ancora prima del Grande Errore del ’38 e dopo l’Egira nessun altro pianoforte era stato fabbricato. Toccavo uno strumento antico almeno mille anni. Gli Steinway e gli Stradivari erano una leggenda, fra noi appassionati di musica. Possibile che quel pianoforte fosse autentico? mi domandai, sfiorando i tasti che davano la sensazione del leggendario avorio… le zanne di un animale estinto, detto elefante. Esseri umani come il vecchio poeta potevano forse sopravvivere dai giorni pre-Egira (in teoria una simile eventualità era plausibile, grazie ai trattamenti Poulsen e alla sospensione criogenica), ma un manufatto di legno, di corde metalliche e d’avorio aveva ben poche possibilità di compiere quel lungo viaggio nel tempo e nello spazio.
Suonai un accordo: do-mi-sol-si bemolle. E poi un accordo in do maggiore. Il tono era privo di pecche, l’acustica della spazionave era perfetta. Il nostro vecchio piano verticale aveva bisogno d’essere accordato da Nonna dopo ogni spostamento di qualche miglio nelle brughiere, ma questo strumento pareva accordato alla perfezione, anche dopo un viaggio d’innumerevoli secoli e anni luce.
Presi lo sgabello, mi sedetti e cominciai a suonare Per Elisa. Un brano sdolcinato, semplice, ma mi pareva adatto al silenzio e alla solitudine di quel luogo buio. A dire il vero, le luci parvero attenuarsi intorno a me, mentre le note riempivano la sala circolare ed echeggiavano su e giù nel buio pozzo delle scale. Pensai a Mamma e a Nonna: non avrebbero mai immaginato che le mie prime lezioni di piano m’avrebbero condotto a quell’a solo in una nave spaziale nascosta. La tristezza di quel pensiero parve contagiare la musica.
Al termine, staccai di scatto le dita dalla tastiera, quasi con un senso di colpa per la mia presunzione: suonare così malamente, su quel magnifico pianoforte, su quel dono del passato, un pezzo così semplice. Rimasi nel silenzio qualche momento, facendomi domande sulla nave, sul vecchio poeta, sul mio posto in quel folle disegno.
«Molto bello» disse piano una voce alle mie spalle.
Confesso che sobbalzai. Non avevo udito nessuno salire o scendere la scaletta, non avevo percepito nessuna presenza estranea nella sala. Girai di scatto la testa.
Non c’era nessuno.
«Da qualche tempo non ho più sentito suonare quel brano» disse di nuovo la voce. Pareva provenire dal centro stesso della sala. «Il mio precedente passeggero preferiva Rachmaninoff.»
Appoggiai la mano sullo sgabello, per riprendermi, e pensai tutte le sciocche domande che potevo evitare di porre.
— Sei la nave? — domandai infine, senza sapere se fosse anche quella una domanda sciocca: desideravo una risposta.
«È ovvio» disse la voce. Era bassa, vagamente maschile. Avevo già udito macchine parlanti (erano in giro da sempre), ma mai una che fosse davvero intelligente. Da più di due secoli, la Chiesa e la Pax avevano messo al bando tutte le vere Intelligenze Artificiali; e la maggior parte dei trilioni di persone sui mille pianeti devastati, dopo aver visto come il TecnoNucleo avesse aiutati gli Ouster a distruggere l’Egemonia, aveva approvato di cuore. Mi resi conto che la mia programmazione personale a quel riguardo era stata efficace: al pensiero di parlare a un meccanismo senziente avevo le palme umide di sudore e un senso di costrizione alla gola.
— Chi era il tuo… ah… precedente passeggero? — domandai.
La voce parve esitare un microsecondo. «Quel signore era generalmente conosciuto come il Console» disse poi. «Per gran parte della vita aveva svolto incarichi diplomatici per conto dell’Egemonia.»
Toccò a me esitare. Mi venne in mente che forse l’"esecuzione" a Port Romance mi aveva strapazzato i neuroni a un punto tale che ora pensavo di vivere in un poema epico di Nonna.
— Che fine ha fatto il Console? — domandai. «È morto» rispose la nave. Forse nella voce c’era una lievissima traccia di rimpianto.
— Come? — Alla fine dei Canti del vecchio poeta si diceva che, dopo la Caduta dei Mondi della Rete, il Console dell’Egemonia aveva lasciato Hyperion e riportato nella Rete la nave. Possibile che fosse la stessa? — Dove morì? — chiesi ancora. Secondo i Canti, nella nave del Console era stata infusa la personalità del secondo cìbrido John Keats.