Cuchiat e Chatchia tolsero dalle sacche alcune maschere. Gli altri Chitchatuk le avevano già indossate. Erano evidentemente manufatti ottenuti dalla stessa membrana della tuta, con imbottiture di pelle di spettro artico cucite qua e là. Gli oculari erano ricavati dal cristallino degli occhi di spettro artico e offrivano una limitata capacità di vedere nel campo dell’infrarosso, come gli occhi delle vesti di pelliccia. Dal muso della maschera uscivano alcune spire d’intestino di spettro artico; Cuchiat cucì con cura a una delle ghirbe d’acqua l’estremità libera.
Quelle non erano semplici ghirbe, capii, vedendo che i Chitchatuk cominciavano a respirare da sotto la maschera: il braciere di pastiglie di combustibile liquefaceva il ghiaccio, ottenendo sia acqua sia gas atmosferico. I Chitchatuk avevano in qualche modo filtrato quella mistura d’atmosfera fino ad avere adeguate quantità d’aria respirabile. Provai a respirare attraverso la maschera… e mi lacrimarono gli occhi per la presenza, in quell’aria, di altri composti gassosi: una chiara traccia di metano e forse perfino d’ammoniaca. Ma era aria respirabile. Calcolai che una ghirba ne contenesse quantità sufficiente solo per un paio d’ore.
Sopra la tuta, indossammo la pelliccia di spettro artico. Cuchiat spinse più in basso del solito la testa della pelliccia e chiuse le zanne in modo da costringerci a guardare dalle lenti: la testa di spettro artico fungeva da rozzo casco sopra la tuta a pressione. Poi calzammo un paio di stivali di pelle di spettro artico, allacciati sui polpacci fin quasi al ginocchio. La pelliccia esterna allora fu rapidamente chiusa con alcuni colpi decisi dell’ago d’osso di Chiaku. La sacca d’acqua e la sacca d’aria pendevano da cinghie sotto la pelliccia, vicino a un lembo che poteva essere scucito e aperto rapidamente quando le sacche avevano bisogno d’essere riempite di nuovo. Chichticu, colui che portava il fuoco di pastiglie di combustibile, era continuamente indaffarato a liquefare atmosfera in acqua e aria, anche durante la marcia, e distribuiva le sacche di ricambio seguendo un ordine preciso, da Cuchiat (il primo) a me (l’ultimo). Almeno ora capivo la scala gerarchica della banda. Capii anche perché, quando in superficie c’era pericolo, la banda si disponeva in cerchio e proteggeva Chichticu, il portafuoco, che stava al centro. Non si trattava solo della sua importanza religiosa e simbolica. La sua costante vigilanza e il suo duro lavoro ci mantenevano in vita.
Mentre uscivamo dalla caverna nel vento turbinoso e sul ghiaccio della superficie, ci fu un’ultima aggiunta al nostro abbigliamento. Da un nascondiglio presso l’ingresso, Chiaku e gli altri recuperarono una provvista di lunghi pattini a lama, affilati come rasoi alla base, piatti e larghi in cima, che si adattavano perfettamente ai piedi. Anche i pattini furono allacciati mediante corregge di pelle. Quegli aggeggi erano un’efficace combinazione di pattini da ghiaccio e di sci da fondo. Percorsi goffamente dieci metri sul ghiaccio variegato, prima di capire che quei pattini erano artigli di spettro artico.
Avevo, lo confesso, una gran paura di cadere in quella gravità di 1,7 g, perché a ogni ruzzolone mi pareva di ricevere addosso l’equivalente di sette decimi di un altro Raul Endymion; ma ben presto imparammo il trucco per muoverci su quegli affari… e poi eravamo ben imbottiti. Alla fine, quando la superficie diventava troppo accidentata, usai uno dei tronchi della zattera come massiccio bastone da sci, procedendo come se fossi su una minizattera per una sola persona.
Mi piacerebbe avere un ologramma o una fotografia del nostro gruppo in quella gita. Con le pellicce, le tute, le sacche d’aria, i tubi, le lance d’osso, la mia carabina al plasma, gli zaini e gli artigli-sci, avevamo di sicuro l’aspetto di paleolitici astronauti della Vecchia Terra.
Andò tutto liscio. Sulla neve e sui sastrugi di cristalli di ghiaccio procedemmo più rapidamente di quanto non avessimo fatto nei tunnel. Se il vento soffiava da sud, cosa che accadde solo per una breve parte della . nostra marcia in superficie, potevamo allargare le braccia infagottate di pelliccia e lasciarci spingere sui tratti piani come se andassimo a vela.
Camminare sulla superficie d’atmosfera ghiacciata di Sol Draconis Septem aveva un’aspra ma memorabile bellezza. Quando il sole era alto, il cielo era vuoto e nero, come visto da una luna; ma un attimo dopo il tramonto, migliaia di stelle parevano spuntare all’improvviso. Durante il giorno le nostre vesti e le tute interne reagirono bene alle alte e basse temperature del quasi-spazio, ma era evidente che neppure i Chitchatuk sarebbero sopravvissuti al gelo della notte. Per fortuna mantenemmo una buona velocità e fummo obbligati a trovare riparo solo per un periodo di oscurità di sei ore: i Chitchatuk avevano progettato la partenza in modo che avessimo il vantaggio di una piena giornata di luce, prima di quella notte.
Non c’erano montagne né altre asperità più grosse di creste o ruscelli di ghiaccio, a parte le prime ore, quando il sole nascente colpì un oggetto ghiacciato a sud dalla nostra posizione. Quella, capii, era la punta del grattacielo di padre Glauco che sporgeva dal ghiaccio, molti chilometri più lontano. A parte quello, la superficie era così piatta che per un minuto mi domandai come facessero i Chitchatuk a orizzontarsi; ma poi vidi Cuchiat dare un’occhiata al sole e alla propria ombra. In quella breve giornata procedemmo sui pattini verso nord.
Sciando/pattinando, i Chitchatuk mantenevano una stretta formazione difensiva con al centro il portafuoco e stregone addetto al fuoco e alle sacche d’aria/acqua, ai lati guerrieri armati di lancia, Cuchiat all’avanguardia e Chiuaku (il vicecapo, capimmo ora) alla retroguardia, tanto impegnato a guardarsi alle spalle da pattinare quasi a ritroso. Ciascun Chitchatuk portava intorno alla veste di pelliccia una matassa di corda di spettro artico (durante la vestizione, anche noi eravamo stati equipaggiati allo stesso modo) e capii meglio lo scopo di tutte quelle corde quando Cuchiat si fermò di colpo e pattinò a est per evitare diversi crepacci che per me erano stati invisibili. Guardai in uno di essi (la fenditura pareva sprofondare nelle tenebre eterne) e cercai d’immaginare come ci si sarebbe sentiti a cadere in quell’abisso. Più tardi, quello stesso pomeriggio, uno degli esploratori scomparve in un’improvvisa e silenziosa esplosione di cristalli di ghiaccio… solo per riapparire un attimo dopo, mentre Chiaku e Cuchiat preparavano le corde di salvataggio. Il guerriero aveva bloccato la propria caduta, si era tolto i pattini e li aveva usati come ramponi da ghiaccio, scavandosi la strada su per la ripida parete della fenditura, come uno scalatore. Stavo imparando a non sottovalutare i Chitchatuk.
Quel primo giorno non scorgemmo spettri artici. Al tramonto capimmo, malgrado lo sfinimento, che Cuchiat e gli altri avevano smesso di pattinare verso nord e facevano un largo giro, scrutando giù nel ghiaccio come se cercassero qualcosa. Intanto l’esile vento ci sferzava con cristalli di ghiaccio. Se fossimo stati in tuta spaziale, sono convinto che il visore si sarebbe rigato e rovinato. Le pellicce e gli oculari di cristallino non mostravano di risentirne.
Finalmente Aichacut, che si era allontanato verso ovest, agitò il braccio (impossibile comunicare a voce, con le maschere e nel vuoto) e andammo tutti da quella parte; ci fermammo in un punto che non pareva diverso dal resto. Cuchiat ci segnalò di stare lontano, slegò l’ascia che gli avevamo regalato e iniziò a spaccare il ghiaccio. Quando lo strato superficiale cedette, vedemmo che non si trattava di un normale crepaccio ma dello stretto ingresso di una caverna. Quattro guerrieri impugnarono la lancia, Chichticu si unì a loro portando la lampada di braci e il gruppetto, preceduto da Cuchiat, strisciò nel foro, mentre noi e gli altri aspettavamo nella solita formazione difensiva.
Dopo qualche istante Cuchiat sporse la testa e a gesti ci segnalò di entrare. Impugnava ancora l’ascia e immaginai che dietro il visore di zanne e sotto la maschera avesse un largo sorriso. L’ascia era stato un dono importante.
Trascorremmo così la notte in una tana di spettro artico. Aiutai Chiaku a chiudere con neve e ghiaccio l’ingresso; poi, con blocchi e grossi frammenti turammo un altro metro di cunicolo e infine entrammo a guardare Chichticu che scioglieva pezzi di ghiaccio per riempire la tana d’aria sufficiente a respirare. Dormimmo affastellati insieme, ventitré individui del Popolo Indivisibile e i tre Viandanti Indivisibili, tenendo indosso le vesti di pelliccia e le tute, ma togliendo le maschere, respirando il gradito odore del sudore altrui. Il calore del mucchio ci tenne in vita durante la terribile notte, mentre tempeste di Coriolis e bufere catabatiche scagliavano frammenti di ghiaccio a velocità prossima a quella del suono… se suono ci fosse stato, in quel vuoto quasi assoluto.