Mashhad era irrealmente deserta, come Nuova Gerusalemme.
— Mi pare di ricordare una voce secondo cui il sistema di Qom-Riyadh era caduto in mano agli Ouster più o meno nello stesso periodo in cui gli Ouster conquistarono la nebulosa Sacco di Carbone — dissi. A. Bettik lo confermò, dicendo che lui e Sileno, per tenersi al corrente, avevano seguito dalla città universitaria il traffico radio della Pax.
Ormeggiammo la zattera a un basso pontile e portai Aenea nell’ombra delle vie. Era una ripetizione di quanto accaduto su Hebron, ma stavolta io ero in buone condizioni e Aenea era priva di sensi. Presi l’appunto mentale d’evitare d’ora in poi i pianeti desertici, se potevo.
Le vie erano meno ordinate di quelle di Nuova Gerusalemme: veicoli da terra parcheggiati malamente e abbandonati sui marciapiedi, detriti spinti dal vento, finestre e porte spalancate alla sabbia rossastra e bizzarri tappetini stesi sui marciapiedi, nelle vie, sui prati morenti. Mi soffermai davanti al primo gruppo di tappetini, pensando che potessero essere tappeti hawking. Erano solo comuni tappeti. Orientati tutti nella stessa direzione.
— Tappeti di preghiera — disse A. Bettik, mentre tornavamo nell’ombra della via. Anche gli edifici più alti non superavano i minareti che spuntavano da una zona a parco con alberi tropicali. — La popolazione di Qom-Riyadh era quasi al cento per cento islamica — continuò l’androide. — Si dice che qui la Pax non abbia trovato spazio, nemmeno con la promessa della risurrezione. La gente non voleva avere niente a che fare col Protettorato.
Girai l’angolo, cercando sempre un ospedale o un segno che potesse condurci a un ospedale. Avevo contro il collo la fronte di Aenea: scottava. Il respiro della bambina era rapido e irregolare. — Credo che questo mondo fosse citato nei Canti - dissi. Mi pareva che la bambina non pesasse niente.
A. Bettik annuì. — Il signor Sileno parlò della vittoria sul cosiddetto Nuovo Profeta ottenuta qui dal colonnello Kassad circa trecento anni fa.
— Gli Sciiti ripresero il potere dopo il crollo della Rete, vero? — Guardammo in un’altra via trasversale. Cercavo una mezzaluna rossa, non il segno universale dell’aiuto medico, la croce rossa.
— Sì — confermò A. Bettik. — E si opposero violentemente alla Pax. Si pensa che abbiano accolto con favore gli Ouster, quando la flotta della Pax si ritirò da questo settore.
Guardai le vie deserte. — Be’, pare che gli Ouster non abbiano apprezzato l’accoglienza. Qui è come su Hebron. Dove credi che siano spariti tutti? Possibile che gli Ouster abbiano preso in ostaggio la popolazione di un intero pianeta e…
— Guardi, un caduceo — m’interruppe A. Bettik.
L’antico simbolo raffigurante un bastone alato con due serpenti intrecciati si trovava sulla finestra di un alto edificio. L’interno dello stabile era a soqquadro, ma pareva la sede di normali uffici, non un ospedale. A. Bettik si accostò a un’insegna digitale che srotolava linee di testo in arabo. E che borbottava con voce meccanica.
— Sai leggere l’arabo? — domandai.
— Sì. Capisco anche qualcosa della lingua parlata, che è il farsi. Al nono piano c’è una clinica privata. Oserei dire che dovrebbe avere un centro diagnostico e forse un robochirurgo.
Puntai alle scale, sempre tenendo in braccio Aenea, ma A. Bettik provò a vedere se l’ascensore funzionava. Il pozzo di vetro ronzò e una vettura a levitazione venne a fermarsi al nostro piano.
— Strano che ci sia ancora l’energia elettrica — dissi.
Salimmo al nono piano. Aenea si svegliò e cominciò a lamentarsi, mentre percorrevamo il corridoio piastrellato, attraversavamo un giardino pensile dove palme gialle e verdi frusciavano al vento, ed entravamo in una bella stanza a vetrate, con file di lettini robochirurgici e un’apparecchiatura diagnostica centralizzata. Scegliemmo il lettino accanto alla finestra, spogliammo la bambina, lasciandole solo la biancheria, e la mettemmo fra le lenzuola pulite. Sostituimmo con gli appositi filamenti i cerotti diagnostici del medipac e aspettammo che si accendessero i pannelli diagnostici. La voce sintetizzata parlava in farsi e una parte dei dati era scritta in arabo, ma c’era una banda in inglese della Rete e noi passammo su quella.
Il robochirurgo diagnosticò sfinimento, disidratazione e un insolito schema elettroencefalografico forse dovuto a un grave colpo alla testa. A. Bettik e io ci guardammo. Aenea non aveva ricevuto nessun colpo alla testa.
Autorizzammo la cura per lo sfinimento e la disidratazione e ci scostammo, mentre cinture di flussoschiuma fuoruscivano dai pannelli del letto, pseudodita cercavano la vena e un’endovenosa lasciava colare una soluzione salina e un sedativo.
Nel giro di qualche minuto la bambina dormiva serenamente. Il pannello diagnostico parlò in arabo e A. Bettik tradusse prima che io mi chinassi a leggere sul monitor. — Dice che il paziente dovrebbe trascorrere una buona notte di riposo e domattina si sentirà meglio.
Cambiai posizione alla carabina al plasma, che portavo legata sulla schiena. I nostri zaini impolverati erano sopra una delle sedie per i visitatori. Mi accostai alla finestra e dissi: — Esco a controllare la città prima che faccia buio. Per accertarmi che non ci sia nessuno.
A. Bettik incrociò le braccia e guardò il grande sole rosso sfiorare la cima degli edifici dall’altra parte della via. — Credo proprio che non ci sia nessuno — disse. — Qui è stato necessario un po’ più di tempo, ecco tutto.
— Per cosa è stato necessario un po’ più di tempo?
— Per ciò che ha portato via la gente. Su Hebron non c’era segno di panico né di lotta. Qui la gente ha avuto il tempo di abbandonare i veicoli. Ma i tappeti di preghiera sono l’indizio più sicuro. — Per la prima volta notai le sottili rughe sulla fronte dell’androide e intorno agli occhi e alla bocca.
— L’indizio più sicuro?
— Sapevano che stava per accadere qualcosa e hanno trascorso in preghiera gli ultimi minuti.
Posai contro la sedia la carabina al plasma e slacciai la falda della fondina. — Vado lo stesso a fare un giro — dissi. — Tieni d’occhio Aenea, nel caso si svegli, d’accordo? — Presi dallo zaino le ricetrasmittenti, ne diedi una all’androide, mi agganciai al colletto l’altra e sistemai il microfono a goccia. — Tieni aperta la frequenza comune. Farò rapporti di controllo. Chiamami, in caso di necessità.
A. Bettik era fermo accanto al lettino. Toccò delicatamente la fronte della bambina addormentata. — Sarò qui, quando Aenea si sveglierà, signor Endymion.
È curioso che ricordi con tanta chiarezza il giro di quella sera nella città abbandonata. L’insegna digitale di una banca diceva che c’erano 40 gradi, ma il vento secco del deserto di roccia rossastra portava via in fretta il sudore e il tramonto rossorosato aveva su di me un effetto calmante. Forse ricordo quella sera perché fu l’ultima notte del nostro viaggio, prima che tutto cambiasse per sempre.
Mashhad era un bizzarro miscuglio di città moderna e di bazar del tipo che compare nelle Mille e una notte, una meravigliosa serie di storie che Nonna soleva raccontarmi sotto il cielo stellato di Hyperion. Quel posto aveva intorno a sé un pungente odore di leggenda. Nell’angolo c’era un chiosco di giornali e uno sportello automatico di banca; appena si girava l’angolo, c’erano banchetti in mezzo alla via, con tendoni dai colori vivaci e montagne di frutta che marciva nei contenitori. Immaginavo benissimo il frastuono e il traffico di quel luogo… cammelli o cavalli o altri animali pre-Egira che giravano in tondo e battevano gli zoccoli, cani che abbaiavano, venditori che imbonivano e clienti che tiravano sul prezzo, donne in chador nero e burqa di trina che passavano con andatura flessuosa, mentre sui lati della via le inefficienti e barocche vetture rombavano e sputavano puzzolente monossido di carbonio o chetoni o qualsiasi robaccia velenosa con cui gli antichi motori a combustione interna ammorbavano l’aria…