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— E la Chiesa concorda con ciò che tutti credono. Che la Vecchia Terra fu inghiottita dal buco nero e che morì quando si presume sia morta.

— Tu a quale versione credi, Raul?

Trassi un sospiro. — Non so — risposi. — Be’, mi piacerebbe che la Vecchia Terra esistesse ancora, ma non mi pare poi così importante.

— E se ci fosse una terza possibilità?

All’improvviso la porta a vetri vibrò e tremò. Posai la mano sulla pistola al plasma, aspettandomi quasi che lo Shrike raspasse per entrare. Era solo l’ululato del vento del deserto. — Una terza possibilità? — ripetei.

— Ummon mentì — disse Aenea. — L’IA mentì a mio padre. Non furono elementi del Nucleo a spostare la Terra… né gli Stabili, né i Volatili, né i Finali.

— Allora fu davvero distrutta.

— No. A quel tempo mio padre non capì. Capì più tardi. La Vecchia Terra fu spostata nella Nube di Magellano, d’accordo, ma non da elementi del Nucleo. Le IA non possedevano la tecnologia né le risorse energetiche né il livello di controllo del Vuoto Legante. Il Nucleo non può neppure arrivare alla Nube di Magellano. Troppo remota… a distanza inimmaginabile.

— Chi, allora? Chi rubò la Vecchia Terra?

Aenea tornò ad adagiarsi sul guanciale. — Non lo so. Credo che nemmeno il Nucleo lo sappia. Ma le IA non vogliono saperlo… e hanno il terrore che noi lo scopriamo.

A. Bettik si accostò d’un passo. — Allora non è il Nucleo ad attivare i teleporter nel nostro viaggio?

— No — rispose Aenea.

— Scopriremo chi è? — domandai.

— Se sopravvivremo — rispose Aenea. — Se sopravvivremo. — Ora i suoi occhi erano stanchi, non febbricitanti. — Ci aspettano domani, Raul. E non mi riferisco al prete-capitano e ai suoi uomini. Qualcuno… qualcosa del Nucleo sarà ad aspettarci.

— La creatura che secondo te ha ucciso padre Glauco, Cuchiat e gli altri?

— Sì.

— La tua è una sorta di visione? La morte di padre Glauco, voglio dire.

— Non una visione — rispose Aenea, con voce vacua. — Solo un ricordo dal futuro. Un ricordo sicuro.

Guardai la tempesta che cominciava a scemare. — Possiamo restare qui — dissi. — Possiamo procurarci uno skimmer o un VEM funzionante, volare nell’emisfero nord e nasconderci in una delle grandi città di cui parla la guida, Alì per esempio. Non siamo obbligati a giocare il loro gioco e varcare domani quel portale.

— Siamo obbligati, invece.

Aprii bocca per protestare, poi invece rimasi zitto. Dopo un poco dissi: — E dove entra in ballo lo Shrike?

— Non lo so — rispose Aenea. — Dipende da chi l’ha mandato stavolta. Oppure potrebbe agire in proprio. Non so.

— In proprio? Credevo che fosse solo una macchina.

— Oh, no. Non è solo una macchina.

Mi grattai la guancia. — Non capisco. Potrebbe essere un amico?

— Un amico, mai — rispose Aenea. Si alzò a sedere e mi mise la mano sulla guancia, dove mi ero grattato un attimo prima. — Scusa, Raul, non voglio parlare per enigmi. Solo, non so! Non c’è niente di scritto. Tutto è fluido. E quando ho una fuggevole visione del movimento delle cose, è come guardare un bel disegno di sabbia l’attimo prima che il vento lo disperda…

Come per dare forza al suo paragone, le ultime raffiche della tempesta di sabbia fecero vibrare i vetri. Aenea mi sorrise. — Mi spiace d’essermi scollata nel tempo, poco fa…

— Scollata?

— La domanda se mi amavi — spiegò, con un sorriso triste. — Avevo dimenticato dove e in quale tempo siamo.

Dopo un istante dissi: — Non importa, ragazzina. Ti voglio bene davvero. E a costo della vita non permetterò che qualcuno ti faccia male domani… la Chiesa, il Nucleo, chiunque altro.

— Anch’io mi sforzerò d’impedire che una simile eventualità si verifichi, signorina Aenea — disse A. Bettik.

La bambina ci sorrise e ci toccò la mano. — Il Taglialegna di Latta e lo Spaventapasseri — disse. — Non merito due amici come voi.

Toccò a me sorridere. Nonna mi aveva narrato quella vecchia storia. — E dov’è il Leone Cuordiconiglio?

Aenea perdette il sorriso. — Quello sono io — disse a voce molto bassa. — Sono io, il cuor di coniglio.

Nessuno di noi dormì ancora, quella notte. Preparammo i bagagli e quando la prima traccia dell’alba sfiorò le rosse colline al di là della città, andammo alla zattera.

51

A causa della velocità relativamente bassa raggiunta nel punto di traslazione nel sistema di Sol Draconis Septem, la Raffaele non deve decelerare molto, mentre entra nello spazio di Boschetto Divino. La riduzione di velocità è media… mai superiore a 25 g… e dura solo tre ore. Rhadamanth Nemes se ne sta distesa nella culla di risurrezione e aspetta.

Quando la nave scivola in orbita intorno al pianeta, Nemes apre lo sportello della bara e con un balzo si lancia nel cubicolo guardaroba per indossare la tuta. Prima di lasciare il modulo di comando e andare nel condotto di lancio della navetta, controlla i monitor delle culle e si collega direttamente al sistema operativo della nave. Le altre tre culle funzionano normalmente, programmate per i tre giorni del periodo nominale di risurrezione. Quando de Soya e i suoi uomini si sveglieranno, Nemes lo sa benissimo, tutto sarà già sistemato. Usa il microfilamento per collegarsi al computer principale della nave e stabilisce le stesse direttive di programmazione e le priorità di registrazione già sfruttate nel sistema Sol Draconis. La nave accetta il programma di rotazione della navetta e si prepara a dimenticarlo.

Prima d’infilarsi nel condotto e raggiungere la camera stagna della navetta, Nemes batte la combinazione del suo armadietto privato. Oltre a qualche cambio d’abito e a qualche falso oggetto personale (ologrammi di "famiglia" e alcune false lettere del suo inesistente fratello) nell’armadietto c’è solo un cinturone extra con le solite giberne. Chi esaminasse quelle giberne troverebbe solo un computer per giocare a carte, del tipo che si può acquistare in qualsiasi negozio per otto o dieci fiorini, un rocchetto di filo, tre boccette di pillole e un pacchetto di tamponi. Nemes si aggancia il cinturone e si dirige alla navetta.

Anche dall’orbita a trentamila chilometri, Boschetto Divino, nei punti dove è visibile attraverso i densi strati di nubi, si rivela il pianeta distrutto che è effettivamente. Anziché essere diviso in continenti e oceani, il pianeta si è tettonicamente evoluto in una singola massa di terra, con migliaia di lunghi bràcci d’acqua salata che striano il panorama come segni d’artiglio sul panno verde di un tavolo da biliardo. Oltre ai fiordi e a innumerevoli laghi lunghi e stretti che seguono le linee di faglia attraverso le verdeggianti masse di terra, ora ci sono migliaia di sfregi marrone, nei punti dove l’invasione Ouster (quella che gli esseri umani ancora ritengono l’invasione Ouster) ha colpito e colpito quelle pacifiche terre, quasi trecento anni prima.

Mentre la navetta entra con un triplice boom sonico nell’atmosfera, Nemes guarda il panorama comparire sotto l’estesa nuvolaglia. Le foreste di sequoie ricombinanti alte duecento metri, che in origine avevano attirato su quel pianeta la Confraternita del Muir, sono in gran parte sparite, bruciate nell’incendio di portata planetaria che ha portato l’inverno nucleare. Larghi tratti degli emisferi nord e sud luccicano ancora per le nevicate e la glaciazione che solo ora comineia a diminuire perché la coltre di nubi si ritrae dalla fascia spessa mille chilometri ai lati dell’equatore. Nemes è diretta proprio in questa regione equatoriale in fase di ripresa.

Prende il controllo manuale del sistema di sollevamento della navetta e inserisce lo spinotto del suo filamento. Sfoglia le mappe planetarie copiate dalla biblioteca principale della Raffaele: eccolo lì… il fiume Teti un tempo percorreva circa 160 chilometri, in genere da ovest a est, passando intorno alle radici dell’Albero Mondo di Boschetto Divino e davanti al Museo del Muir. Nemes vede che il Giro del Teti formava un enorme semicerchio quasi completo, mentre il fiume serpeggia intorno a un piccolo tratto della circonferenza nord dell’Albero Mondo. I Templari si erano ritenuti la coscienza ecologica dell’Egemonia (inserendo sempre la loro non richiesta opinione in ogni tentativo di terraforming nella Rete o nella Frontiera) e l’Albero Mondo era il simbolo della loro arroganza. A dire il vero, quell’albero era unico nell’universo conosciuto: con gli ottanta chilometri di diametro del tronco e i cinquecento della chioma, pari alla base del leggendario Mons Olympus su Marte, quel singolo organismo vivente spingeva i rami più alti nelle frange dello spazio.