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— Non può essere indigena — dissi, raddrizzando la zattera che la corrente tendeva a spingere di lato. — In questo deserto non possono esserci piogge sufficienti a farla crescere.

— Credo che fosse un’estesa zona di giardini piantati dai devoti pellegrini Shi’a, signor Endymion — disse A. Bettik. — Ascolti.

Tesi l’orecchio. La foresta pluviale era animata dal cinguettio d’uccelli e dal fruscio del vento. In sottofondo si udivano i sibili e gli scatti degli innaffiatoi automatici. — Incredibile — dissi. — Usare la preziosa acqua per mantenere questo ecosistema. Si estende di sicuro per chilometri.

— Paradiso — disse Aenea.

— Cosa, ragazzina? — Con la pertica riportai la zattera al centro della corrente.

— Sulla Vecchia Terra i musulmani erano soprattutto popoli del deserto — disse piano Aenea. — Per loro il paradiso era acqua e verzura. Mashhad era un centro religioso. Forse questa foresta doveva dare ai fedeli una vaga idea di cosa avrebbero avuto se avessero rispettato gli insegnamenti di Allah nel Corano.

— Una costosa anteprima non preannunciata — commentai, trascinando un poco la pertica, mentre ci spostavamo di nuovo a sinistra nel fiume che diventava più ampio. — Mi domando cos’è accaduto alla gente.

— La Pax — disse Aenea.

— Cosa? — Non capivo. — Questi mondi… Hebron, Qom-Riyadh… erano sotto il controllo degli Ouster, quando la popolazione è svanita.

— Secondo la Pax — obiettò Aenea. Rimuginai su quella risposta.

— Cos’hanno in comune i due pianeti, Raul? — domandò Aenea.

Trovai subito la risposta. — Erano incrollabilmente non cristiani. Si rifiutarono d’accettare la croce. Ebrei e musulmani.

Aenea rimase in silenzio.

— Un pensiero orribile — ripresi. Mi si rivoltava lo stomaco. — La Chiesa potrà anche essere mal guidata… la Pax potrà anche essere arrogante per il potere di cui dispone… ma… — Mi asciugai il sudore che mi colava negli occhi. — Oddio… — Trovavo difficile pronunciare quell’unica parola. — Genocidio?

Aenea cambiò posizione per guardarmi. Proprio dietro di lei, le gambe munite di lame dello Shrike mandarono bagliori sotto i raggi del sole. — Non lo sappiamo — disse Aenea, a voce molto bassa. — Ma ci sono elementi della Chiesa e della Pax che farebbero una cosa del genere, Raul. Non dimenticare che il Vaticano dipende quasi totalmente dal Nucleo per mantenere il controllo sulla risurrezione… e di conseguenza su tutte le popolazioni di tutti i pianeti.

Già scuotevo la testa. — Ma… il genocidio? Non posso crederci. — Quel concetto apparteneva alla leggenda di Horace Glennon-Height e di Adolf Hitler, non alla gente e alle istituzioni viste nella mia vita.

— Qualcosa di terribile è in atto — disse Aenea. — Forse è questo il motivo per cui siamo stati istradati su questi pianeti… Hebron e Qom-Riyadh.

— L’hai già detto una volta — replicai, facendo forza sulla pertica. — Istradati. Ma non dal Nucleo. Da chi, allora? — Guardai la schiena dello Shrike. Ruscellavo sudore per il caldo. Quella creatura era tutta fredde lame e spine.

— Non lo so — disse Aenea. Si girò e appoggiò sulle ginocchia le braccia. — Ecco il teleporter.

Il portale, arrugginito e coperto di rampicanti, spuntava dalla fitta giungla. Se quello era ancora il giardino paradiso di Qom-Riyadh, era sfuggito al controllo. Sopra il baldacchino verdeggiante, il cielo azzurro recava una traccia di nubi di sabbia rossastra spinte dal vento.

Governando la zattera verso il centro del fiume, posai la pertica lungo la fiancata e andai a prendere la carabina. Avevo ancora lo stomaco sottosopra al pensiero del genocidio. Ora mi si rivoltò maggiormente per le immagini di caverne di ghiaccio, di cascate, di pianeti oceanici e dello Shrike che tornava in vita mentre varcavamo il portale verso qualsiasi cosa fosse in attesa.

— Reggetevi forte — dissi senza necessità, mentre passavamo sotto l’arcata metallica.

Il panorama davanti a noi svanì e mutò, come se una cortina di foschia dovuta al calore avesse iniziato a tremolare tutt’intorno. Di colpo la luce cambiò, la gravità cambiò, il mondo cambiò.

53

Il Padre Capitano de Soya è svegliato dall’urlo. Solo dopo parecchi minuti si rende conto d’essere lui a urlare.

Col pollice fa scattare il gancio del coperchio-bara e si alza a sedere nella culla. Sul pannello monitor alcune spie luminose palpitano di rosso e di ambra, anche se tutte quelle essenziali sono già verdi. Gemendo per il dolore e per lo stato confusionale, de Soya inizia a uscire dalla culla. Rimane librato a mezz’aria, agita le mani ma non trova appigli. Nota che mani e braccia luccicano di un colore rosso e rosa, come se la pelle avesse subito ustioni.

— Santa madre di Maria… dove sono? — Piange. Le lacrime gli restano sospese davanti agli occhi, come filze di grani di rosario. — Gravità zero… dove sono? Sulla Baldassarre? Cos’è… accaduto? Battaglia spaziale? Ustioni?

No. È a bordo della Raffaele. A poco a poco i prolungamenti dei neuroni del suo cervello violentato dalla morte cominciano a funzionare. De Soya galleggia nel buio illuminato dalle spie degli strumenti. La Raffaele. Dovrebbe trovarsi in orbita intorno a Boschetto Divino. De Soya ha predisposto il ciclo di risurrezione delle culle di Gregorius, di Kee e della propria per un rischioso periodo di sei ore anziché dei soliti tre giorni. "Gioco a fare Dio, con la vita dei soldati" ricorda d’avere pensato. Le possibilità che in sole sei ore la risurrezione non abbia successo sono altissime. De Soya ricorda il secondo corriere che gli ha portato ordini sulla Baldassarre, padre Gawronski (gli pare decenni prima) e la sua risurrezione non riuscita: il cappellano di bordo… come si chiamava, il vecchio bastardo? ah, sì, padre Sapieha… aveva detto che sarebbero occorsi mesi perché padre Gawronski fosse risuscitato, dopo quel fallimento iniziale… un lento, doloroso procedimento, aveva detto in tono d’accusa il cappellano…

Il Padre Capitano de Soya si accorge che la mente gli si schiarisce; galleggia tuttora sopra la culla. In caduta libera, come ha programmato. Ricorda d’avere pensato che forse non sarebbe stato in condizioni di camminare in gravità normale. Infatti non è in condizione di camminare.

Con una spinta si sposta nel cubicolo guardaroba e si controlla allo specchio… il suo corpo luccica, rossastro; pare davvero vittima di ustioni; il crucimorfo è un livido segno in tutta quella carne rosea, scorticata.

De Soya chiude gli occhi, indossa la biancheria e la tonaca. Il cotone sfrega dolorosamente la carne viva, ma lui non vi bada. Vede che il caffè è pronto, come ha programmato. Stacca dal tavolo strategico il bulbo di caffè e torna nella sala comune.

La culla del caporale Kee risplende di verde: gli ultimi secondi prima della risurrezione. Nella culla di Gregorius lampeggiano spie d’allarme. De Soya impreca sottovoce e a braccia si tira sul pannello della culla del sergente. Il ciclo è stato interrotto. La risurrezione accelerata non ha avuto successo.

— Perdio! — mormora de Soya. Recita subito un atto di contrizione perché ha nominato il nome di Dio invano.

Kee comunque si riprende bene, ma soffre ed è in stato confusionale. De Soya lo toglie di peso dalla culla, lo porta nel quadrato ufficiali, con una spugna gli bagna la pelle ardente, gli fa bere una spremuta di arancia. Nel giro di qualche minuto Kee è in grado di capire.

— C’era qualcosa che non quadrava — spiega de Soya. — Ho dovuto correre il rischio, per scoprire che cosa combina il caporale Nemes.