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"Dov’è il cecchino?" mi domandai. Le scapole mi dolevano per la tensione.

La riva più vicina era alla nostra destra: una sporgenza piatta ed erbosa, l’ultimo posto facile da raggiungere, per quel che vedevo a valle del fiume. Un posto invitante. Troppo invitante.

E poi Aenea era ancora aggrappata alla roccia, otto metri più a monte.

Avvinghiati, con il braccio buono di A. Bettik sulla mia spalla, barcollando, procedendo a scatti, per metà nuotammo e per metà strisciammo a monte, mentre l’acqua ci colpiva e ci schizzava il viso. Quando arrivammo alla roccia, ero mezzo cieco. Le dita di Aenea erano livide per il freddo e per lo sforzo.

— La riva! — gridò Aenea, mentre l’aiutavo a reggersi in piedi. Il primo passo ci fece finire in una buca e la corrente batté contro il petto e il collo della bambina, le ricoprì il viso di spuma bianca.

Scossi la testa. — A monte! — gridai e tutt’e tre cominciammo a fare forza contro la corrente, con l’acqua che ci colpiva e ci schizzava ai lati. Solo la mia forza maniacale in quel momento ci tenne in piedi e ci consentì di procedere. Ogni volta che la corrente minacciava di farci cadere e di tirarci sott’acqua, immaginavo d’essere solido come l’Albero Mondo che un tempo si levava a sud, con le radici che correvano in profondità nel letto roccioso. Tenevo d’occhio un tronco caduto, forse venti metri sulla riva destra. Se avessimo potuto ripararci dietro quel tronco… Dovevo applicare a A. Bettik il laccio emostatico del medipac entro qualche minuto, lo sapevo, altrimenti l’androide sarebbe morto. Se ci fossimo fermati lì in mezzo al fiume, avremmo rischiato che la corrente portasse via il medipac, la sacca e tutto il resto. Ma non volevo rimanere esposto su quell’invitante sporgenza erbosa…

"Monofili" pensai. Tolsi dalla cintura la torcia laser e illuminai il fiume a monte. Non c’erano cavi. "Ma potrebbero essere sott’acqua, in attesa di mozzarci le caviglie."

Cercando di tenere a freno la mia immaginazione, trascinai controcorrente me stesso e gli altri. La torcia laser era scivolosa. La stretta di A. Bettik sulla mia spalla diventava sempre più debole. Aenea si teneva avvinghiata al mio braccio sinistro come se fosse la sua unica àncora di salvezza. Era davvero la sua unica àncora.

Avevamo risalito faticosamente meno di dieci metri, quando l’acqua davanti a noi esplose. Rischiai di ruzzolare all’indietro. Aenea andò sotto; la tirai fuori afferrandola freneticamente per la camicia inzuppata. A. Bettik parve accasciarsi contro di me.

Lo Shrike emerse dal fiume proprio davanti a noi, con gli occhi rossi e ardenti, e cominciò ad alzare le braccia.

— Merda santa! — Non so chi di noi gridò quell’imprecazione. Forse tutti e tre.

Ci girammo, guardando tutti da sopra la spalla, mentre le dita munite di lame tranciavano l’aria qualche centimetro dietro di noi.

A. Bettik andò sotto. Lo afferrai per l’ascella e lo tirai fuori. La tentazione di abbandonarmi alla corrente e di correre a valle era fortissima. Aenea inciampò, si rialzò da sola e indicò la riva destra. Le risposi con un cenno e deviammo in quella direzione.

Dietro di noi, lo Shrike rimase al centro del fiume, con le quattro braccia sollevate e dondolanti come la coda di uno scorpione metallico. Quando guardai di nuovo, era scomparso.

Cademmo tutti una decina di volta, prima che i miei piedi toccassero fango e non pietre. Spinsi Aenea sulla riva, poi girai e rotolai A. Bettik sull’erba. L’acqua del fiume rumoreggiava ancora e mi arrivava alla cintola. Non mi presi la briga di uscire, ma gettai sull’erba la sacca, lontano dall’acqua. — Medipac — ansimai, cercando di tirarmi fuori. Quasi non riuscivo a muovere le braccia. La parte inferiore del tronco era insensibile per l’acqua gelida.

Anche Aenea aveva le dita intirizzite… annaspò per aprire la chiusura velcro del medipac e prendere la manica emostatica… ma ci riuscì. A. Bettik aveva perduto conoscenza, mentre Aenea gli applicava i cerotti diagnostici, srotolava la mia cintura e stringeva intorno al moncherino la manica emostatica. La manica sibilò e aumentò la stretta, poi sibilò di nuovo mentre iniettava analgesico o stimolante. Le spie del monitor palpitavano con segnali d’allarme.

Provai di nuovo, riuscii a mettere sulla riva la parte superiore del corpo e mi tirai fuori del fiume. Battevo i denti, mentre dicevo a Aenea: — Dov’è… la… pistola?

La bambina scosse la testa. Batteva anche lei i denti. — Perduta… quando noi… lo Shrike, è spuntato…

Avevo appena la forza per annuire. Il fiume era deserto. — Forse se n’è andato — dissi, serrando le mascelle fra una parola e l’altra. Dov’era la termocoperta? Spazzata a valle, nello zaino. Avevamo perduto tutto ciò che non era nella sacca impermeabile.

Alzai la testa e guardai a valle. L’ultima luce del giorno illuminava la cima degli alberi, ma il canyon era già buio. Una donna scendeva dalle lastre di lava, verso di noi.

Alzai la torcia laser e spostai la leva sul raggio compatto.

— Non useresti su di me quell’affare, vero? — disse la donna, in tono divertito.

Aenea staccò lo sguardo dal monitor diagnostico del medipac e fissò la nuova venuta. La donna indossava un’uniforme nera e cremisi che non avevo mai visto. Non era di corporatura notevole. Aveva capelli corti e scuri; il suo viso era pallido nella luce che ormai svaniva. La sua mano destra, fin sopra il polso, era uno spettacolo assurdo: pareva che qualcuno l’avesse scorticata e vi avesse incastonato ossa in fibra di carbonio.

Aenea cominciò a tremare, non per paura, ma per un’emozione più intensa. Strinse gli occhi e fece una smorfia che avrei definito una via di mezzo tra ferina e intrepida. Strinse il pugno.

La donna rise. — M’aspettavo qualcosa di più interessante — disse. Saltò giù dalla roccia, sull’erba.

55

La giornata è stata lunga e noiosa: Nemes ha riposato per qualche ora e si è svegliata appena ha percepito il dislocamento dovuto all’attivazione del teleporter situato quindici chilometri a monte. Si è spostata più in alto sulle rocce laviche, si è nascosta dietro un tronco caduto e ha atteso l’atto seguente.

L’atto seguente, ha pensato poi, è stato una farsa. Ha osservato il trambusto nel fiume, il goffo salvataggio dell’uomo artificiale (dell’uomo artificiale meno un braccio artificiale, si è corretta) e poi, con un certo interesse, la bizzarra comparsa dello Shrike. Ovviamente sapeva già che lo Shrike era nelle vicinanze, dal momento che le vibrazioni di dislocamento del suo passaggio nel continuum non erano molto diverse da quelle dovute all’apertura del portale. Addirittura è passata al modo temporapido per guardare lo Shrike entrare a guado nel fiume e fare da spauracchio agli umani. Era rimasta perplessa: cosa faceva, quella creatura obsoleta? Teneva gli umani alla larga dalla trappola di forficule, oppure li spingeva verso di lei come un bravo cane da pastore? Nemes sapeva già che la risposta dipendeva dalla fazione che in primo luogo aveva inviato in missione quella mostruosità tutta lame.

Non è che avesse grande importanza. Nel Nucleo si pensava che lo Shrike fosse stato creato e mandato indietro nel tempo da una precoce iterazione dell’Intelligenza Finale. Si sapeva che lo Shrike aveva fallito e che sarebbe stato sconfitto di nuovo nelle lotte del remoto futuro tra l’IF umana appena nata e il Dio Macchina in maturazione. Quale che fosse il caso, lo Shrike era un fallimento e una nota in calce a quel viaggio. Nemes non aveva altro interesse in quella creatura se non la speranza, ormai labile, che le fornisse un attimo d’animazione come avversario.

Ora, guardando gli esausti esseri umani e il comatoso androide giacere scompostamente sull’erba, Nemes si stufa di restare passiva. S’infila saldamente nella cintura la sacca per campioni, nasconde nella fascetta velcro che porta al polso la scheda della trappola sfinge, scende dalle rocce di lava e avanza sulla sporgenza erbosa.