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— Allora, a che punto eravamo? — disse. Avanzò senza fretta.

In quegli ultimi secondi di battaglia non è stato facile piazzare la trappola sfinge. Nemes usa tutta l’energia per ribattere alle lame turbinanti dello Shrike. Le pare di combattere contro parecchie eliche rotanti tutte insieme. È già stata su pianeti con velivoli spinti da eliche. Due secoli prima, su uno di quei pianeti ha ucciso il Console dell’Egemonia.

Adesso controbatte braccia mulinanti, senza mai staccare lo sguardo dagli occhi ardenti. "Il tuo tempo è trascorso" pensa, rivolgendosi allo Shrike, mentre braccia e gambe, protette dal dislocamento, menano fendenti e controfendenti, come falci invisibili. Penetrando nel campo meno focalizzato dello Shrike, Nemes afferra una giuntura del braccio superiore e strappa via spine e lame. Quel braccio ricade, ma cinque bisturi della mano inferiore penetrano nell’addome di Nemes e cercano di sventrarla.

— No no — dice Nemes, con un calcio alla gamba destra dello Shrike, sbilanciandolo per un millesimo di secondo. — Non correre troppo.

Lo Shrike barcolla e in quell’attimo di vulnerabilità Nemes toglie dalla fascia che porta al polso la scheda sfinge; sfruttando una breccia di cinque nanosecondi nel proprio campo di dislocamento, posiziona la scheda esattamente nel palmo della propria mano e la sbatte in una punta che sporge dal collo dello Shrike.

— Ecco fatto — grida, balzando indietro. Passa in temporapido per controbattere il tentativo dello Shrike di staccare la scheda e l’attiva pensando a un cerchio rosso.

Si allontana ancora, mentre il campo iperentropico si manifesta con un ronzio e scaglia lo Shrike cinque minuti nel futuro. Lo Shrike non può tornare, mentre quel campo continua a esistere.

Rhadamanth Nemes torna in tempolento e spegne il campo. La brezza, per quanto surriscaldata e piena di faville, le dà un piacevole senso di freschezza. — Allora — dice Nemes, godendosi l’espressione nelle due paia d’occhi umani — a che punto eravamo?

— Lo faccia! — grida il caporale Kee.

— Non posso — dice de Soya, ai comandi. Tiene il dito sull’onni-presa tattica. — Acqua a terra. Esplosione di vapore. Li ucciderebbe tutti. — I quadri di comando della Raffaele mostrano ogni erg di energia deviata, ma non serve a niente.

Kee abbassa il microfono a perla, commuta l’interruttore su tutti i canali e comincia a trasmettere su raggio compatto, assicurandosi che il reticolo inquadri l’uomo e la bambina, non la donna che avanza.

— Non servirà a niente — dice de Soya. In tutta la sua vita non si è mai sentito così frustrato.

— Rocce — grida intanto Kee nel microfono. — Rocce!

Mi ero alzato, spingevo Aenea tenendola dietro di me e rimpiangevo di non avere la pistola, la torcia laser, qualsiasi cosa, mentre la donna si avvicinava. La carabina al plasma era sempre nella sacca impermeabile sulla riva a soli due metri da me. Dovevo solo fare un balzo, aprire la sacca, togliere la sicura, aprire il calcio ripiegato, puntare e sparare. Non credevo che quella donna sorridente me ne avrebbe lasciato il tempo. E non credevo neppure che Aenea sarebbe stata ancora viva, quando mi fossi girato a sparare.

In quel momento lo stupido braccialetto comlog si mise a vibrare e il rivestimento interno mi sfregò la pelle come quelle antiquate sveglie da polso non sonore. Non ci badai. Il comlog cominciò a farmi formicolare il polso. Portai all’orecchio lo stupido marchingegno. Il comlog bisbigliò: «Vai sulle rocce. Prendi la bambina e vai sulle lastre di lava».

Non aveva senso. Guardai A. Bettik (sotto i miei occhi le spie luminose già passavano dal verde all’ambra) e iniziai ad arretrare, inciampando ma tenendomi fra quella donna sorridente e Aenea.

— Via, via — disse la donna. — Non è simpatico. Aenea, se vieni qui, il tuo amico avrà salva la vita. Anche il tuo pseudouomo azzurro si salverà, se il tuo amico riuscirà a tenerlo in vita.

Abbassai rapidamente gli occhi per guardare il viso di Aenea: avevo paura che la bambina accettasse l’offerta. Lei mi si appese al braccio. Negli occhi aveva un’intensità terribile, ma non era impaurita. — Andrà tutto bene, ragazzina — le mormorai, continuando a spostarmi sulla sinistra. Dietro di noi c’era il fiume. Cinque metri a sinistra iniziavano le rocce di lava.

La donna si mosse a destra, bloccandoci la strada. — Perdiamo solo tempo — disse, calma. — Ho ancora solo quattro minuti. Un mucchio di tempo. Un’eternità.

— Andiamo. — Afferrai per il braccio Aenea e corsi verso le rocce. Non avevo piani. Avevo solo le parole prive di senso mormorate da una voce che non era quella del comlog.

Non raggiungemmo mai le rocce di lava. Ci fu una vampata d’aria calda e la sagoma cromata della donna fu davanti a noi, tre metri sopra di noi, sulla facciata di roccia nera. — Addio, Raul Endymion — disse la maschera di cromo. Il tremolante braccio metallico si sollevò.

La vampata di calore mi bruciò le sopracciglia, m’incendiò la camicia e ci scagliò in aria, all’indietro. Battemmo duramente e rotolammo via dall’indicibile calore. I capelli di Aenea fumavano e li battei con le braccia per impedire che prendessero fuoco. Il medipac di A. Bettik strideva di nuovo, ma il rombo da valanga dell’aria iperriscaldata soffocava l’avvertimento. Vidi che la manica della mia camicia fumava e la strappai prima che prendesse fuoco. Girammo le spalle al calore e strisciammo via il più rapidamente possibile. Pareva d’essere sul bordo d’un vulcano attivo.

Afferrammo A. Bettik e lo tirammo sulla riva, senza esitare un secondo a infilarci nell’acqua fumante. Mi sforzai di tenere fuor d’acqua la testa dell’androide svenuto, mentre Aenea si sforzava d’impedire a noi due di scivolare via nella corrente. Proprio appena sopra la superficie dell’acqua, dove il nostro viso premeva sul fango umido della riva, l’aria era quasi abbastanza fresca da consentirci di respirarla.

Sentendo le bolle gonfiarsi sulla fronte, senza sapere ancora che le sopracciglia e ciocche di capelli erano bruciate, alzai la testa e scrutai dal bordo della riva.

La figura cromata era ritta al centro di un cerchio di tre metri di luce arancione che si estendeva fino al cielo e scompariva solo quando si restringeva a un infinitesimale puntino, centinaia di chilometri più in alto. L’aria tremolava e ribolliva, dove il raggio d’energia quasi solida tagliava l’atmosfera.

La donna metallica cercò di muoversi verso di noi, ma il raggio ad alta energia parve esercitare una pressione troppo forte. Tuttavia la donna si tenne in piedi; il campo cromato divenne rosso, poi verde, poi d’un bianco abbagliante. Ma lei continuò a stare dritta, ad agitare il pugno al cielo. Sotto i suoi piedi la lava bollì, divenne rossa, colò a valle in grandi rivoli fusi. Alcuni rivoli finirono nel fiume, a neppure dieci metri da noi, e con un forte sibilo sollevarono nubi di vapore. Ammetto che in quel momento, per la prima volta in vita mia, presi in seria considerazione l’idea di diventare religioso.

La sagoma cromata parve intuire il pericolo qualche secondo prima che fosse troppo tardi. Sparì, ricomparve come macchia confusa… pugno agitato contro il cielo… sparì di nuovo, comparve per l’ultima volta e poi affondò nella lava fusa dove un istante prima c’era solida roccia.

Il raggio rimase attivo ancora per un minuto buono. Non potevo più guardarlo direttamente e il calore mi spellava le guance. Premetti di nuovo il viso nel fango e tenni A. Bettik e la bambina contro la riva, mentre la corrente cercava di tirarci a valle nel vapore e nella lava e nel reticolato di monofili.

Guardai dal bordo un’ultima volta e vidi il pugno di cromo affondare nella lava; poi il campo parve per un attimo frazionarsi in colori, prima di estinguersi. La lava cominciò subito a solidificarsi. Nel tempo che impiegai a tirare sulla riva Aenea e A. Bettik e a ricominciare il massaggio cardiaco, dalla roccia quasi solida colava solo qualche rivolo o pseudopodo di lava. Schegge di roccia si staccarono e volteggiarono nell’aria surriscaldata, mescolandosi alle faville della foresta ancora in fiamme dietro di noi. Non c’era segno della donna cromata.