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— È ora? — domandai.

— Non proprio, signore — rispose l’androide. — Prima mi aveva chiesto di tornare per una conversazione.

— Ah, sì — dissi. Indicai il letto, l’unico mobile della stanza. — Sediamoci.

L’androide rimase accanto alla porta. — In piedi sono del tutto a mio agio, signore.

Incrociai le braccia e mi appoggiai al davanzale. Dalla finestra entrava aria fresca, odorosa di chalma. — Non chiamarmi signore — dissi. — Raul basta e avanza. — Esitai. — A meno che tu non sia programmato per rivolgerti agli… ah… — stavo per dire "umani", ma non volevo dare l’impressione di pensare che A. Bettik fosse "non" umano — … alla gente in quel modo — conclusi alla meno peggio.

A. Bettik sorrise. — No, signore. Non sono affatto programmato… non sono una macchina. A parte diverse protesi sintetiche… per aumentare la mia forza fisica, per esempio, o per consentirmi di resistere alle radiazioni… non ho parti artificiali. Mi è stata insegnata la deferenza nello svolgimento delle mie mansioni, tutto qui. Potrei chiamarla signor Endymion, se preferisce.

Scrollai le spalle. — Non importa. Mi dispiace sapere tanto poco sugli androidi.

A. Bettik sorrise di nuovo. — Non c’è bisogno di scusarsi, signor Endymion. Pochissime persone ancora in vita hanno visto un esemplare della mia razza.

"Della mia razza" notai. Interessante. — Parlami della tua razza — dissi. — Nell’Egemonia la biocostruzione di androidi non era illegale?

— Sì, signore. — Vidi che aveva assunto la posizione di riposo e mi domandai oziosamente se per caso non avesse fatto il militare. — Ancora prima dell’Egira — continuò A. Bettik — la biocostruzione di androidi era illegale sulla Vecchia Terra e su molti mondi dell’Egemonia. Ma la Totalità permise la biocostruzione di un certo numero di androidi da usare nella Periferia. A quel tempo Hyperion faceva parte della Periferia.

— Ne fa parte tuttora.

— Sì, signore.

— Quando sei stato biocostruito? In quali pianeti sei vissuto? Quali compiti avevi? — Esitai un istante. — Se non sono domande indiscrete.

— No, certo, signor Endymion — rispose lui, con calma. Nella voce aveva la traccia di un dialetto per me nuovo. D’altri mondi. Antico. — Fui creato nell’anno 26 dalla fondazione della colonia, calendario locale.

— Nel XXV secolo della Vecchia Terra — dissi, sorpreso. — 694 anni fa.

A. Bettik annuì in silenzio.

— Perciò sei nato… sei stato biocostruito… dopo la sua distruzione — dissi, più a me stesso che all’androide.

— Sì, signore.

— E Hyperion è stato la tua prima… ah… destinazione di lavoro?

— No, signore. Nel primo mezzo secolo d’esistenza, ho lavorato su Asquith, al servizio di Sua Altezza Reale Arthur VIII, sovrano del regno in esilio di Windsor, e anche al servizio di suo cugino, principe Rupert del principato in esilio di Monaco. Alla morte di re Arthur, passai in eredità a suo figlio, Sua Altezza Reale William XXIII.

— Re Billy il Triste.

— Sì, signore.

— E sei venuto su Hyperion quando re Billy il Triste fuggì a causa della rivolta di Horace Glennon-Height?

— Sì. A dire il vero, i miei fratelli androidi e io siamo stati mandati su Hyperion trentadue anni prima che vi sbarcassero Sua Altezza e gli altri coloni. Fummo inviati qui dopo la vittoria del generale Glennon-Height nella battaglia di Fomalhaut. Sua Altezza ritenne saggio che fosse pronto un pianeta alternativo per il regno in esilio.

— E fu allora che incontrasti il signor Sileno — suggerii, con un gesto verso il soffitto, rivedendo nella mente il vecchio poeta dentro la rete d’apparecchiature che lo manteneva in vita.

— No — disse l’androide. — Negli anni in cui la Città dei Poeti era abitata, i miei compiti non mi portarono in contatto col signor Sileno. Ho avuto il piacere di conoscere il signor Sileno in epoca posteriore, durante il suo pellegrinaggio nella Valle delle Tombe del Tempo, due secoli e mezzo dopo la morte di Sua Altezza.

— E da allora sei sempre stato su Hyperion. Cinquecento e passa anni su questo pianeta.

— Sì, signor Endymion.

— Sei immortale? — domandai. Sapevo che era una domanda impertinente, ma volevo la risposta.

A. Bettik mostrò quel suo sorriso appena accennato. — No, certo, signore. Morirò anch’io, per un incidente o per una ferita tanto grave da rendere impossibili le riparazioni. Solo, quando fui biocostruito, le mie cellule e i miei sistemi furono sottoposti in nanotecnologia a una forma sperimentale del trattamento Poulsen, per cui ho un’estrema resistenza all’invecchiamento e alle malattie.

— Per questo gli androidi hanno la pelle azzurra?

— No, signore. Abbiamo pelle azzurra perché al tempo della nostra biocostruzione nessuna razza umana era di quel colore e i progettatori ritenevano d’estrema importanza che fosse possibile distinguerci a occhio dagli esseri umani.

— Non ti consideri umano?

— No, signore. Mi considero androide.

Sorrisi per la mia ingenuità. — Continui a svolgere prestazioni tipiche dei servi — dissi. — Eppure da secoli la schiavitù androide è stata dichiarata illegale in tutta l’Egemonia.

A. Bettik rimase in silenzio.

— Non vorresti essere libero? Una persona a buon diritto indipendente?

A. Bettik si accostò al letto. Pensai che si sarebbe seduto, ma lui si limitò a piegare e ammucchiare i vestiti che avevo indossato poco prima. — Signor Endymion — disse poi — dovrei farle notare che, per quanto le leggi dell’Egemonia siano morte con l’Egemonia, ormai da alcuni secoli mi ritengo persona libera e indipendente.

— Però tu e gli altri lavorate per il signor Sileno, qui, di nascosto — insistetti.

— Sì, signore. Ma lo faccio per libera scelta. Sono stato progettato per servire la razza umana. Faccio bene il mio lavoro. E ne traggo soddisfazione.

— Allora sei rimasto qui di tua spontanea volontà.

A. Bettik annuì con un breve sorriso. — Sì, nei limiti del libero arbitrio di ciascuno di noi, signore.

Con un sospiro mi staccai dalla finestra. Ormai fuori era buio pesto. Immaginai che fra non molto sarei stato chiamato a cena dal vecchio poeta. — E continuerai a stare qui e a badare al vecchio fino alla sua morte — dissi.

— No, signore — replicò A. Bettik. — Se sarà chiesto il mio parere sulla faccenda.

Esitai, sorpreso. — Davvero? E dove andrai, se sarai consultato in proposito?

— Se accerterà la missione che il signor Sileno le ha offerto, signore — disse quell’uomo dalla pelle azzurra — sceglierei di venire con lei.

Quando fui accompagnato di sopra, scoprii che quel piano non era più la camera d’un malato, ma era stato trasformato in una sala da pranzo. La poltrona di flussoschiuma a cuscino d’aria era scomparsa, i monitor medici erano svaniti, i quadri comando per le trasmissioni non si vedevano e il soffitto era aperto al cielo. Con l’occhio addestrato dell’ex pastore localizzai subito le costellazioni del Cigno e delle Due Gemelle. Davanti a ogni finestra di vetro colorato c’erano bracieri posti su alti tripodi, le cui fiamme davano alla sala altra luce e calore. Al centro della stanza c’era un tavolo da pranzo lungo tre metri. Porcellane, argenteria e cristallerie risplendevano alla guizzante luce di candele poste in due candelabri lavorati. Alle estremità del tavolo erano apparecchiati due posti. In quello più lontano, Martin Sileno era già accomodato su di una sedia dall’alto schienale.

Il vecchio poeta era a stento riconoscibile, pareva essersi liberato di vari secoli in poche ore. Da una sorta di mummia con pelle di pergamena e occhi infossati, si era trasformato in un normale anziano signore… affamato, a giudicare dalla luce che gli brillava negli occhi. Mentre mi avvicinavo, notai le sottili cannule delle fleboclisi e i filamenti dei monitor che serpeggiavano sotto il tavolo; ma, per il resto, l’illusione di una persona riportata in vita dal regno dei morti era perfetta.