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Orik si tolse la calotta ferrata e fece scorrere un dito ruvido sull’incisione. «È il simbolo del mio clan. Siamo gli Ingietum, fabbri e artigiani del metallo. Il martello e le stelle sono incisi anche sul pavimento di Tronjheim perché era l’insegna personale del nostro fondatore, Korgàn. Un clan che governa, circondato dagli altri dodici. Anche il re Rothgar appartiene alla Dùrgrimst Ingietum, e ha portato grande onore e gloria al nostro casato.»

Quando riportarono i piatti al cuoco, incrociarono nel corridoio un nano, che si fermò davanti a Eragon, s’inchinò e lo salutò con rispetto dicendo: «Argetlam.»

Il nano si allontanò lasciando Eragon confuso e imbarazzato, ma anche stranamente compiaciuto. Nessuno si era mai inchinato davanti a lui. «Cos’ha detto?» bisbigliò all’orecchio di Orik. Orik si strinse nelle spalle. «È una parola elfica usata un tempo per definire i Cavalieri. Significa “mano d’argento”.» Eragon si guardò la mano guantata, pensando al gedwey ignasia che gli illuminava il palmo. «Vuoi tornare daSaphira?»

«C’è un posto dove posso fare il bagno, prima? È da parecchio che porto con me la sporcizia del viaggio. La mia camicia è strappata, sporca di sangue, e puzza. Vorrei cambiarla, ma non ho soldi per comprarmene una nuova. C’è qualche lavoro che posso fare in cambio?»

«Vuoi forse insultare l’ospitalità di Rothgar, Eragon?» esclamò Orik. «Finché sarai a Tronjheim, non dovrai comprare niente. Ci ripagherai in altri modi... Ajihad e Rothgar sapranno come. Vieni. Ti mostro dove lavarti, e poi andremo a cercare una camicia pulita.»

Condusse Eragon lungo una scala che scendeva nelle viscere di Tronjheim. I corridoi si ridussero a stretti cunicoli, alti appena cinque piedi, ed Eragon dovette procedere chino. Tutte le lanterne erano rosse. «Per non restare accecati dalla luce quando si entra o esce da una grotta buia» spiegò Orik. Entrarono in una stanza spoglia, con una porticina sulla parete opposta, che Orik indicò. «Lì troverai le vasche, e anche spazzole e sapone. Lascia qui i tuoi vestiti. Ne troverai di nuovi quando avrai finito di lavarti.»

Eragon lo ringraziò e prese a spogliarsi. Si sentiva oppresso, lì da solo sottoterra, soprattutto se guardava il soffitto bassissimo. Si svestì in fretta. Infreddolito, varcò la soglia per ritrovarsi in un’assoluta oscurità. Tese il piede un poco alla volta finché non incontrò dell’acqua tiepida, e si tranquillizzò.

Aleggiava un odore vagamente salmastro, piacevole. Per un momento ebbe paura di allontanarsi dalla porta verso l’acqua più profonda, ma nell’immergersi scoprì che gli arrivava alla cintola. Avanzò a tentoni lungo un muretto viscido finché non trovò il sapone e le spazzole, e cominciò a lavarsi. Infine si lasciò galleggiare, con gli occhi chiusi, godendo del calore.

Quando rientrò gocciolante nella stanza illuminata, trovò un asciugamano, una bella camicia di lino e un paio di braghe. I vestiti erano quasi della misura giusta per lui. Soddisfatto e rinfrancato, si avviò lungo il tunnel.

Orik lo aspettava con la pipa in mano. Risalirono le scale fino a Tronjheim e uscirono dalla città-montagna. Eragon alzò lo sguardo verso il picco di Tronjheim e chiamò Saphira con la mente. Mentre la dragonessa scendeva, Eragon chiese: «Come fate a comunicare con le persone che sono lassù?»

Orik ridacchiò. «È un problema che abbiamo risolto tanto tempo fa. Non l’hai notato, ma dietro gli archi aperti che si affacciano da ogni livello c’è un’unica scala ininterrotta che risale lungo il muro della sala centrale di Tronjheim e arriva fino alla rocca sopra Isidar Mithrirn. La chiamiamo Voi Turin, la Scala Infinita. Certo, non è rapida da salire e scendere in caso di emergenza, e non è comoda per l’uso quotidiano. Infatti per comunicare usiamo le lanterne di segnalazione. C’è anche un altro modo, ma viene usato di rado. Quando fu costruita Voi Turin, accanto a essa venne scavato una specie di canale di scolo. Funziona come un gigantesco scivolo, alto quanto una montagna.»

Eragon abbozzò un sorriso. «È pericoloso?»

«Non pensare nemmeno di provarci. Lo scivolo è stato costruito per i nani, ed è troppo stretto per un umano. Potresti cadere fuori, per le scale, e cozzare contro gli archi, o finire nel vuoto.»

Saphira atterrò a un tiro di lancia da loro, in un crepitio di squame. Mentre salutava Eragon, umani e nani si riversarono da Tronjheim e si strinsero intorno a lei con mormorii di interesse. Eragon osservò la folla con crescente disagio. «Faresti meglio ad andare» disse Orik, spingendolo avanti.

«Ci rivediamo davanti a questo cancello domattina. Ti aspetterò.»

Eragon esitò. «Come faccio a sapere che è mattina?»

«Ti farò svegliare da qualcuno. Adesso vai!» Senza indugiare oltre, Eragon si fece largo tra la folla che circondava Saphira e le montò in groppa.

Un attimo prima che la dragonessa spiccasse il volo, una vecchia si fece avanti e afferrò la caviglia di Eragon. Il giovane tentò di liberarsi, ma la stretta era tenace come una morsa di ferro. Gli ardenti occhi grigi della donna erano circondati da una fitta ragnatela di rughe; la pelle delle guance ricadeva in pieghe flosce come sacchi vuoti. Nell’incavo del braccio sinistro portava un fagotto lacero.

Spaventato, Eragon chiese: «Che cosa vuoi?»

La donna inclinò il braccio e un lembo di stoffa del fagotto si aprì, mostrando il volto di un neonato. Con voce roca e disperata, la donna implorò: «Questa bimba è orfana.,, non c’è nessuno che si prenda cura di lei, tranne me, e io sono vecchia e debole. Benedicila col tuo potere. Argetlam. Benedici la sua sorte!»

Eragon cercò Orik con lo sguardo, supplicando aiuto, ma il nano si limitò a guardarlo a sua volta, con un’espressione indecifrabile. La folla tacque, aspettando la sua risposta. Gli occhi della donna erano fissi su di lui. «Benedici questa bimba. Argetlam, benedicila» insisteva.

Eragon non aveva mai benedetto nessuno. Non era una cosa che si faceva alla leggera in Alagasëia, perché una benedizione poteva facilmente corrompersi e rivelarsi più una maledizione che un augurio, specie se pronunciata con cattivi intenti o senza convizione. Oso prendermi questa responsabilità? si chiese.

«Benedicila. Argetlam, benedicila.»

Finalmente deciso, cercò una frase o un’espressione da usare. Non gli venne in mente niente. Poi, in un lampo d’ispirazione, pensò all’antica lingua. Sì, sarebbe stata una vera benedizione, pronunciata con parole di potere, da chi aveva il potere.

Si chinò e si tolse il guanto dalla mano destra. Posò il palmo sulla fronte della neonata e disse:

«Atra giilai un ilian tauthr ono un atra ono waise skòlir fra rauthr.» Le parole lo lasciarono inaspettatamente debole, come se avesse usato la magia. Si rimise il guanto e disse alla donna:

«Questo è il massimo che posso fare per lei. Se esistono parole che hanno il potere di ostacolare la sventura, sono queste.».

«Ti ringrazio. Argetlam» mormorò la vecchia con un lieve inchino. Si accinse a ricoprire il visetto della bimba, quando Saphira sbuffò e abbassò la testa sulla piccola. L’anziana donna si irrigidì, trattenendo il fiato, Saphira sfiorò col muso la fronte della piccola, poi si rialzò lentamente. La folla emise un’esclamazione soffocata. Sulla fronte della bimba, nel punto in. cui Saphira l’aveva toccata, c’era .una macchia a forma di stella, bianca e lucente come il gedwéy ignasia di Eragon. La donna guardò Saphira con occhi umidi, colmi di gratitudine.

Saphira si alzò subito in volo, sferzando gli spettatori attoniti con lo spostamento d’aria prodotto dai suoi poderosi colpi d’ala. Mentre il terreno si allontanava sotto di loro, Eragon trasse un profondo sospiro e le abbracciò stretto il collo. Cosa hai fatto? le chiese.