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Angela scosse la testa. «Non è così. Gli stregoni normali sono appunto questo, normali... né meglio né peggio di tutti noi. Usano le loro capacità magiche per controllare gli spiriti e il potere degli spiriti. Gli Spettri tuttavia rinunciano a quel controllo per conquistare un potere maggiore e permettono al proprio corpo di essere controllato dagli spiriti. Purtroppo, soltanto gli spiriti maligni cercano di possedere gli umani, e una volta insediati, non se ne vanno più. Questa possessione può avvenire per sbaglio, se uno stregone evoca uno spirito più forte di lui. Il problema è che una volta creato uno Spettro, è terribilmente difficile ucciderlo. Come sono certa saprai, soltanto due persone. Laetri l’Elfo e Irnstad il Cavaliere, sono riusciti in questa impresa.»

«L’ho sentito dire.» Eragon fece un ampio gesto con la mano. «Come mai vivi quassù? Non è scomodo, restare così isolata? E come hai fatto a portare qui tutta questa roba?»

Angela gettò indietro la testa e rise di gusto. «Vuoi saperlo proprio? Mi nascondo. Quando sono arrivata a Tronjheim, ho passato qualche giorno in pace... finché una delle guardie che mi ha fatto entrare nel Farthen Dùr ha cominciato a raccontare in giro chi sono. A quel punto tutti i maghi di qui, anche se nessuno di loro merita tale appellativo, hanno preso a insistere perché mi unissi alla loro setta segreta. Specie quei due drajl di Gemelli che la controllano. Alla fine ho minacciato di trasformarli in rospi... scusa, in rane, ma quando nemmeno questo li ha fermati, sono salita quassù nel cuore della notte. È stato meno complicato di quanto tu creda, per una con le mie capacità.»

«Hai permesso ai Gemelli di esaminarti la mente prima di entrare nel Farthen Dùr?» chiese Eragon.

«Io sono stato costretto a lasciarli frugare fra i miei ricordi.»

Un lampo di gelo balenò negli occhi di Angela. «I Gemelli non avrebbero mai osato esaminarmi, per paura di ciò che avrei potuto fare loro. Oh, sì, avrebbero voluto, ma sapevano che lo sforzo li avrebbe ridotti a due mentecatti balbettanti. Frequento questo posto da molto prima che i Varden cominciassero a scrutare la mente delle persone... e non ho alcuna intenzione di consentire che lo facciano adesso.»

Sbriciò nell’altra stanza e disse: «Bene! È stata una conversazione molto istruttiva, ma temo che sia ora che tu te ne vada. La mia pozione di radici di mandragola e lingua di tritone sta per bollire, e devo sorvegliarla. Torna quando avrai tempo, E ti prego, non dire a nessuno che sono qui. Non vorrei dover traslocare di nuovo. Mi seccherebbe parecchio... e tu non vuoi vedermi seccata, vero?»

«Manterrò il tuo segreto» promise Eragon, e si alzò.

Solembum balzò giù dalle gambe di Angela, mentre anche lei si alzava. «Bene!» esclamò l’indovina.

Eragon la salutò e uscì. Solembum lo guidò di nuovo alla roccaforte, poi si congedò con un guizzo di coda prima di scivolare via.

55

Il re della montagna

Sulla roccaforte, Eragon trovò un nano ad attenderlo. Dopo essersi inchinato e aver borbottato «Argetlam» il nano aggiunse, con un pesante accento: «Bene. Sveglio. Knurla Orik ti aspetta.» S’inchinò di nuovo e corse via. Saphira balzò giù dalla sua caverna e atterrò accanto a lui. Teneva Zar’roc fra gli artigli.

A che cosa serve? domandò lui, accigliato.

Saphira inclinò la testa. Prendila. Sei un Cavaliere e dovresti portare la spada di un Cavaliere.

Zar’roc ha un passato di sangue, ma questo non deve modificare le tue azioni. Plasma un nuovo futuro per lei, e portala con orgoglio.

Sei sicura? Ricorda il consiglio di Ajihad.

Saphira sbuffò, e un ricciolo di fumo le risalì dalle narici. Portala, Eragon. Se desideri mantenerti al di sopra delle forze in gioco, non farti influenzare dai pensieri altrui.

Come vuoi, disse Eragon esitante, allacciandosi la spada alla vita. Si arrampicò in groppa alla dragonessa, e Saphira spiccò il volo dalla cima di Tronjheim. C’era abbastanza luce nel Farthen Dùr ora che la massa nebulosa delle pareti del cratere, cinque miglia in ogni direzione, era visibile. Mentre scendevano a spirale verso la base della città-montagna, Eragon raccontò a Saphira del suo incontro con Angela.

Non appena furono atterrati vicino a uno dei cancelli di Tronjheim. Orik corse loro incontro. «Il mio sovrano, re Rothgar, desidera vedervi entrambi. Fate in fretta.»

Eragon smontò da Saphira e seguì il nano dentro Tronjheim. Saphira li seguì senza difficoltà. Ignorando gli sguardi dei curiosi lungo il corridoio. Eragon chiese: «Dove incontreremo Rothgar?»

Senza rallentare. Orik rispose: «Nella sala del trono, sotto la città. Sarà un’udiènza privata come atto di otho, di fede. Non occorre che ti rivolga a lui in nessun modo speciale, ma parlagli con rispetto. Rothgar si adira facilmente, ma è saggio e un esperto conoscitore della mente degli uomini, perciò rifletti prima di parlare.»

Una volta entrati nella sala centrale di Tronjheim. Orik imboccò una delle due scale discendenti che fiancheggiavano il corridoio di fronte. Era quella di destra, che curvava dolcemente verso l’interno fino a riprendere la direzione da cui erano venuti. L’altra si univa a questa per formare un’ampia scalinata fiocamente illuminata, che terminava, dopo cento piedi, davanti a una porta di granito a due battenti. Su entrambi era incisa una corona a sette punte.

Sette nani erano a guardia di ciascun lato della porta. Impugnavano picconi di metallo brunito e indossavano elmi tempestati di gemme. Mentre Eragon. Orik e Saphira si avvicinavano, i nani picchiarono per terra col manico dei loro picconi. Un cupo rimbombo echeggiò per le scale. I due battenti si aprirono verso l’interno.

Davanti a loro c’era una sala scura, lunga un buon tiro di freccia. La sala del trono era una caverna naturale; le pareti erano costellate di stalagtiti e stalagmiti, ciascuna più grossa di un uomo. Il pavimento scuro era liscio e levigato. In fondo alla sala c’era un trono nero che ospitava una figura immobile. Orik s’inchinò. «Il re vi aspetta.» Eragon posò una mano sul fianco di Saphira, e i due avanzarono insieme. Le porte si chiusero alle loro spalle, lasciandoli soli nella penombra della sala con il re.

Ogni loro passo echeggiava nella sala mentre avanzavano verso il trono. Nei recessi fra le stalattiti e le stalagmiti erano incassate grandi statue. Ogni scultura raffigurava un re dei nani con la corona, seduto sul trono; i loro occhi vuoti fissavano in lontananza, i. volti rugosi fermati in espressioni feroci. Un nome era cesellato con le rune sotto ogni paio di piedi.

Eragon e Saphira avanzarono solennemente tra le due file di monarchi defunti. Superarono oltre quaranta statue; poi c’erano oscure nicchie vuote, in attesa dei re futuri. Si fermarono al cospetto di Rothgar, in fondo alla sala.

Anche il re dei nani sedeva come una statua su un trono ricavato da un unico blocco di marmo nero, tozzo, disadorno e tagliato con estrema precisione. Il sovrano emanava una grande forza, una forza che risaliva ai tempi antichi in cui i nani avevano governato in Alagasëia, senza interferenze di elfi o umani. In testa, al posto della corona, portava un elmo rotondo, d’oro tempestato di diamanti e rubini. Il suo volto era arcigno, segnato dal tempo e solcato da rughe di esperienza. Sotto la fronte sporgente e le sopracciglia cespugliose brillavano occhi scuri e penetranti. Sul torace massiccio indossava una cotta di maglia. Portava la lunga barba bianca infilata nella cintura, e in grembo teneva un potente martello da guerra con il simbolo del clan dì Orik inciso sulla testa.

Eragon si piegò goffamente su un ginocchio. Saphira rimase eretta. Il re si mosse, come svegliandosi da un lungo sonno, e borbottò: «Alzati. Cavaliere, non occorre che mi tributi alcun omaggio.»

Rialzandosi, Eragon incontrò gli occhi impescrutabili di Rothgar. Il re lo squadrò severo, poi disse con voce gutturale: «Àz knurl deimi lanok. Attenzione, la roccia cambia. Un vecchio detto che usa da noi. E oggi la roccia cambia molto in fretta, davvero.» Accarezzò l’impugnatura del martello.