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«Non ti ho potuto ricevere prima, come ha fatto Ajihad, perché sono stato costretto a occuparmi dei miei nemici all’interno dei clan. Pretendevano che ti negassi asilo e ti cacciassi dal Farthen Dùr. Mi ci è voluto molto per convincerli del contrario.»

«Ti ringrazio» disse Eragon. «Non sapevo che il mio arrivo avrebbe causato tanti problemi.»

Il re accettò i ringraziamenti, poi levò una mano nodosa e indicò le statue lontane. «Guarda. Cavaliere Eragon, dove i miei predecessori siedono sui loro troni scolpiti. Sono quarantuno, e io sono il quarantaduesimo. Quando da questo mondo passerò nelle mani degli dei, la mia hìrna verrà aggiunta a quella schiera. La prima statua è quella del nostro antenato Korgan, che forgiò questa mazza. Volund. Per otto millenni, fin dall’alba della nostra razza, i nani hanno governato sotto il Farthen Dùr. Siamo le ossa della terra, più antichi sia dei leggiadri elfi che dei selvaggi draghi.»

Saphira si mosse appena.

Rothgar si protese dal trono, la voce profonda e rauca. «Sono vecchio, umano, anche secondo il nostro modo di contare gli anni. Vecchio abbastanza da aver visto i Cavalieri nella loro fuggevole gloria, vecchio abbastanza da aver parlato con il loro ultimo comandante. Vrael, che mi venne a rendere omaggio fra queste stesse mura. Sono pochi i vivi che possono dire altrettanto. Ricordo i Cavalieri e come si immischiavano nei nostri affari. Ma ricordo anche la pace che mantenevano e che rendeva possibile viaggiare illesi da Tronjheim a Narda.

«E.ora tu sei di fronte a me… una tradizione perduta che si rinnova. Dimmi, e parla sinceramente, perché sei venuto nel Farthen Dùr? Sono a conoscenza degli eventi che ti hanno spinto a fuggire dall’Impero, ma quali sono le tue intenzioni, adesso?»

«Per adesso, Saphira e io vogliamo soltanto recuperare le forze a Tronjheim» rispose Eragon. «Non siamo qui per creare problemi, solo per trovare asilo dai pericoli che abbiamo affrontato per tanti mesi. Ajihad vorrebbe mandarci dagli elfi, ma finché non lo fa, per noi va benissimo restare qui.»

«Dunque è soltanto il desiderio di sicurezza che vi ha condotti qui?» chiese Rothgar. «Vuoi vivere a Tronjheim e dimenticare le tue questioni con l’Impero?»

Eragon scosse il capo, respingendo con orgoglio quell’affermazione. «Se Ajihad ti ha parlato del mio passato, dovresti sapere che l’Impero mi ha causato tanto dolore che non sarò soddisfatto finché non lo vedrò ridotto in cenere. Ma oltre a questo, voglio aiutare coloro che non possono opporsi a Galbatorix, compreso mio cugino. Possiedo la forza per aiutarli, quindi devo.»

Il re parve soddisfatto dalla risposta. Si rivolse a Saphira e chiese: «Drago, tu che cosa pensi in proposito? Per quale ragione siete venuti?»

Saphira arricciò il labbro di sopra per emettere un cupo ringhio. Digli che ho sete del sangue dei nostri nemici e attendo con desiderio il giorno in cui cavalcheremo in battaglia contro Galbatorix.

Non provo indulgenza né pietà per i traditori e i distruttori di uova, come quel falso re. Mi ha tenuta prigioniera per oltre un secolo e anche adesso possiede due dei miei fratelli, che farò di tutto per liberare, E digli anche che ti giudico pronto per questo compito.

Eragon fece una smorfia a quelle parole, ma le riferì puntualmente a Rothgar. Il re arricciò un angolo della bocca in una smorfia di cupo divertimento; le sue rughe si fecero ancora più profonde.

«Vedo che i draghi non sono cambiati nel corso dei secoli.» Picchiò le nocche sul granito del trono.

«Sai perché questo sedile è stato scolpito in modo così squadrato? Perché nessuno ci si possa sedere comodo. Io non ci sto comodo e me ne separerò senza rimpianti quando verrà il momento. Che cosa ti rammenta i tuoi doveri, Eragon? Se l’Impero dovesse cadere, prenderai il posto di Galbatorix e rivendicherai il suo regno?»

«Non cerco la corona né il comando» disse Eragon, corrucciato. «Essere un Cavaliere comporta già enormi responsabilità. No, non voglio il trono di Urù’baen... a meno che non ci sia nessuno disposto a farlo, o abbastanza competente.»

Rofhgar lo ammonì con aria grave: «Certo saresti un re migliore di Galbatorix, ma nessuna razza dovrebbe avere un capo che non invecchia e non lascia il trono. Il tempo dei Cavalieri è passato, Eragon. Non risorgeranno più... nemmeno se le altre uova di Galbatorix dovessero schiudersi.»

Un’ombra gli attraversò il viso quando il suo sguardo si posò sul fianco di Eragon. «Vedo che porti la spada di un nemico; mi era stato detto, e mi è stato detto anche che hai viaggiato col figlio di un Rinnegato. Non mi piace vedere quell’arma.» Tese una mano. «Ma vorrei esaminarla.»

Eragon estrasse Zar’roc dal fodero e la porse al re, dal lato dell’impugnatura. Rothgar la prese e fece scorrere lo sguardo esperto sulla rossa lama che rifletteva la luce delle lanterne. Ne saggiò la punta con il palmo e disse: «Una lama forgiata da maestri. Gli elfi di rado scelgono di fabbricare spade... preferiscono archi e picche... ma quando lo fanno, i risultati sono impareggiabili. Questa è una lama segnata dalla cattiva sorte; non sono contento di vederla nel mio regno. Ma portala pure, se vuoi: forse la sua sorte è cambiata.» Restituì Zar’roc a Eragon, che la rinfoderò. «Mio nipote ti è stato utile durante questi primi giorni di permanenza?»

«Chi?»

Rothgar inarcò un sopracciglio cespuglioso. «Orik, il figlio di mia sorella minore. Ha servito sotto Ajihad a dimostrazione del mio sostegno ai Varden, ma a quanto pare è stato esonerato per tornare al mio comando. Mi ha fatto piacere sapere che hai preso le sue difese.»

Eragon capì che quello era un altro segno di otho, di fede, da parte di Rothgar. «Non avrei potuto chiedere una guida migliore.»

«Bene» disse il re, chiaramente soddisfatto. «Purtroppo non posso trattenermi oltre con te. I miei consiglieri mi aspettano per discutere di alcune questioni. Ma c’è un’ultima cosa che devi sapere: se desideri avere il sostegno dei nani all’interno del mio regno, devi prima dimostrare quanto vali. Abbiamo la memoria lunga e non prendiamo decisioni affrettate. Le parole non servono a niente senza i fatti.»

«Lo terrò a mente» disse Eragon con un inchino.

Rothgar annuì con aria regale. «Potete andare, adesso.»

Eragon si volse insieme a Saphira, e ripercorsero la sala del re della montagna. Orik li aspettava dall’altro lato dei portali di pietra, con un’espressione ansiosa. Mentre risalivano verso la sala centrale di Tronjheim, domandò: «È andato tutto bene? Siete stati accolti con benevolenza?»

«Mi è parso di sì. Il tuo re è molto cauto» commentò Eragon.

«Ecco come ha fatto a sopravvivere così a lungo.»

Non mi piacerebbe proprio trovarmi di fronte a un Rothgar infuriato, osservò Saphira.

Eragon le scoccò un’occhiata. Già, nemmeno a me. Non sono sicuro di quello che pensa di te... Ho la netta impressione che non ami i draghi, anche se non l’ha detto apertamente.

Saphira sembrò divertita. In questo si è dimostrato molto saggio, soprattutto perché mi arriva a stento al ginocchio.

Al centro di Tronjheim, sotto lo sfavillante Isidar Mithrim. Orik disse: «La tua benedizione di ieri ha messo in subbuglio i Varden. È stato come infastidire un alveare. La bambina che Saphira ha toccato viene acclamata come una futura eroina. Lei e la sua tutrice sono state alloggiate in un appartamento lussuosissimo. Tutti parlano del tuo miracolo, e tutte le madri umane ti cercano per farti fare lo stesso ai loro piccoli.»

Eragon si guardò intorno, allarmato. «Che cosa dovremmo fare?»

«A parte pensare prima di agire?» disse Orik, seccato. «Farti vedere il meno possibile. Nessuno avrà accesso alla roccaforte, perciò lassù non sarai disturbato.»

Eragon non aveva ancora voglia di tornare alla rocca. Era mattina, e voleva esplorare Tronjheim con Saphira. Ora che erano lontani dall’Impero, non c’era ragione perché restassero separati; ma era impossibile non attirare l’attenzione con lei al suo fianco. Saphira, che cosa vuoi fare?