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Finalmente i Gemelli alzarono le mani e dissero: «C’è soltanto un’ultima cosa da fare. È abbastanza semplice... chiunque si ritenga esperto di magia dovrebbe riuscirci senza problemi.» Uno di loro si sfilò un anello dal dito e lo porse a Eragon. «Evoca l’essenza dell’argento.»

Eragon fissò l’anello, perplesso. Che cosa si aspettavano che facesse? Che cos’era l’essenza dell’argento? E come si evocava? Saphira non ne aveva idea, e i Gemelli si guardarono bene dal dirlo. Il ragazzo non aveva mai imparato come si dice argento nell’antica lingua, anche se sapeva che doveva far parte del nome argetlam. Preso dalla disperazione, elaborò una combinazione di ethgri, “invoca”, e arget.

Si erse in tutta la sua statura, e fece appello agli ultimi residui di potere rimasti; dischiuse le labbra per parlare, quando una voce chiara e vibrante risuonò alle sue spalle.

«Basta!»

La parola gli scivolò addosso come un rivolo d’acqua fredda, eppure aveva un che di familiare, come le note accennate di una melodia nota. Si sentì formicolare la nuca. Si volse lentamente verso la sua fonte.

Arya! Una striscia di cuoio le cingeva la fronte per tenere a bada la ricca massa di capelli neri, che le ricadevano sulle spalle come una cascata di inchiostro. Al fianco portava la spada sottile, a tracolla l’arco. Le sue forme snelle erano coperte da semplici indumenti di pelle nera, troppo modesti per una figura così bella. Era più alta della maggior parte degli uomini, e il suo portamento era perfettamente equilibrato e rilassato. Il volto immacolato non rifletteva alcuno degli orrendi abusi che aveva subito.

I suoi occhi smeraldini fissavano ardenti i due Gemelli, diventati all’improvviso ancora più pallidi per la paura. Si avvicinò con passo felpato e disse in tono calmo e minaccioso: «Vergogna! Gli avete chiesto qualcosa che soltanto un maestro è in grado di fare. Vergogna! I vostri metodi sono vili e meschini. Vergogna! Avete detto ad Ajihad che non conoscete le capacità di Eragon, pur sapendo che è molto competente. Ora andatevene!» Arya aggrottò la fronte con fare minaccioso, le sopracciglia oblique aggrottate come due saette convergenti, e indicò l’anello nella mano di Eragon.

«Arget!» esclamò con voce decisa.

L’argento scintillò, e un’immagine spettrale dell’anello si materializzò accanto a esso. Erano identici, anello e immagine, ma l’apparizione sembrava più pura e scintillava come metallo incandescente. A quella vista, i Gemelli si voltarono e si allontanarono in fretta, i mantelli svolazzanti sopra i calcagni. L’anello immateriale svanì dalla mano di Eragon, lasciando dietro di sé soltanto il circoletto d’argento. Orik e Fredric si irrigidirono, guardando Arya con sospetto. Saphira si accovacciò, pronta a scattare.

L’elfa li squadrò uno per uno. I suoi occhi obliqui si soffermarono su Eragon. Poi si volse e s’incamminò verso il centro del campo di addestramento. I guerrieri cessarono di allenarsi e la fissarono a bocca aperta. Sul campo aleggiava un silenzio carico di timore reverenziale.

Eragon la seguì, inesorabilmente attratto dal suo fascino. Saphira gli parlò, ma lui rimase sordo ai suoi commenti. Intorno all’elfa si formò un fitto capannello di gente, ma lei, giunta al centro del campo, si voltò, guardò soltanto Eragon negli occhi ed esclamò: «Rivendico il diritto di misurarmi con te. Sfodera la spada.»

Vuole duellare con me!

Ma non desidera farti del male, credo, osservò Saphira, esortandolo con una lieve spinta del nuiso.

Vai e fatti onore. Io resterò a guardare.

Eragon fece un timido passo avanti, accettando a malincuore la sfida. Si sentiva esausto dopo tutte le magie evocate per i Gemelli, e soprattutto esposto allo sguardo di tanti spettatori. Per giunta. Arya non poteva essere in condizioni di duellare: erano passati soltanto due giorni da quando aveva preso il Nettare di Tunivor. Smorzerò i colpi per non farle male, si disse.

Si fronteggiarono al centro della cerchia di guerrieri. Arya impugnò la spada con la sinistra. L’arma era più sottile di quella di Eragon, ma altrettanto lunga e affilata. Il giovane estrasse Zar’roc dal lucido fodero e mantenne la lama rossa puntata verso il basso. Per un lungo istante rimasero immobili, elfa e umano, a studiarsi a vicenda. A Eragon balenò in mente il ricordo dei tanti duelli con Brom.

Avanzò cauto. Con uno scatto fulmineo, invece. Arya si lanciò verso di lui, mirando alle costole. Eragon parò il colpo d’istinto, e le loro lame cozzarono creando una pioggia di scintille. Zar’roc schizzò da un lato come una mosca infastidita. L’elfa non approfittò della breccia nella difesa dell’avversario, ma piroettò a destra, i lunghi capelli fluttuanti, e cercò di colpire l’altro fianco. Eragon riuscì a stento a parare il colpo e indietreggiò frenetico, sbalordito dalla ferocia e dalla velocità dell’elfa.

Troppo tardi ricordò gli ammonimenti di Brom, secondo il quale anche l’elfo più debole poteva facilmente sconfiggere un umano. Aveva le stesse probabilità di sconfiggere Arya che aveva avuto con Durza. Lei attaccò ancora, questa volta mirando alla testa. Lui si abbassò sotto la lama affilata come un rasoio. Ma allora perché lei stava… giocando con lui? Per qualche secondo fu troppo impegnato a difendersi per capire, poi comprese: Vuole scoprire quanto sono bravo.

A quel punto cominciò a esibirsi nella più complicata serie di attacchi che conosceva. Passava da una posizione all’altra, modificandole e ricombinandole in ogni modo possibile. Ma per quanta inventiva dimostrasse, la spada di Arya era sempre lì a bloccare la sua. Contrastava ogni sua azione con grazia disinvolta.

Impegnati in una danza feroce, i loro corpi si univano e si separavano al ritmo delle spade. A volte quasi si toccavano, i muscoli tesi ad appena un soffio di distanza, ma poi lo slancio stesso li divideva, facendoli volteggiare per poi incontrarsi ancora. Le loro forme si allacciavano e si separavano come spirali di fumo sospinte dal vento.

Eragon non avrebbe mai potuto dire quanto durò il duello. Sembrava che il tempo si fosse dissolto per lasciare spazio soltanto ad azione e reazione. Zar’roc diventava sempre più pesante e i muscoli del braccio gli bruciavano a ogni colpo. Alla fine, mentre lui tentava un affondo. Arya si spostò appena di lato e la punta della sua spada si posò sullo zigomo di Eragon con una rapidità sovrannaturale.

Eragon s’impietrì quando sentì il gelido metallo a contatto con la pelle. I muscoli gli tremavano per lo sforzo. A stento si accorse del cupo brontolio emesso da Saphira e delle acclamazioni rauche dei guerrieri in circolo. Arya abbassò la spada e la ripose nel fodero. «Hai superato la prova» disse con somma calma in mezzo al fracasso.

Frastornato, Eragon raddrizzò la schiena lentamente.

Fredric era di fianco a lui e gli dava grandi pacche sulle spalle. «Un capolavoro di scherma! Ho perfino imparato qualche nuova mossa, guardando voi due. E l’elfa... meravigliosa!»

Ma ho perso, protestò lui in silenzio. Orik si complimentò con un largo sorriso ma Eragon non aveva occhi che per Arya, immobile e silenziosa. Lei mosse appena un dito verso una collinetta a circa un miglio dal campo di addestramento, poi si volse e si allontanò. La folla si divise in due ali di umani e nani ammutoliti, per lasciarla passare.

Eragon si rivolse a Orik. «Devo andare. Più tardi tornerò sulla rocca.» Rinfoderò Zar’roc e salì in groppa a Saphira. La dragonessa si alzò in volo sul campo, che si trasformò in un mare di facce tutte rivolte verso di lei. .