Mentre volavano verso la collinetta, Eragon vide Arya correre sotto di loro con passi lievi e agili. Saphira commentò: La trovi attraente, vero?
Sì, ammise lui, e arrossì.
Il suo viso ha più carattere di quello della maggior parte degli umani, sbuffò lei, ma è troppo lungo, sembra quello di un cavallo, e nel complesso è troppo esile e piatta.
Eragon guardò Saphira stupito. Sei gelosa!.
Impossibile. Non sono mai gelosa, ribattè lei, offesa.
In questo caso sì, ammettilo! rise lui.
La dragonessa fece schioccare le fauci. No che non lo sono! Eragon sorrise e scrollò il capo, ma preferì non insistere. Saphira atterrò bruscamente sul poggio, facendolo sobbalzare in malo modo, Eragon scivolò a terra senza commentare.
Arya arrivò poco dopo; Eragon non aveva mai visto nessuno correre così veloce e senza sforzo. Quando arrivò in cima alla collinetta, l’elfa respirava tranquillamente, come se avesse fatto una passeggiata. D’improvviso a corto di parole, Eragon abbassò lo sguardo. Lei gli passò accanto e si rivolse a Saphira. «Skulblaka, eka celòbra Ono un mulabra ono un onr Shur’tugal né haina. Atra nosu waìse fricai.»
Eragon non riconobbe la maggior parte delle parole, ma Saphira evidentemente comprese il messaggio, perché fece frullare le ali e squadrò Arya con espressione curiosa. Poi annuì, mormorando di gola. Arya sorrise. «Sono felice di vedere che ti sei ripresa» disse Eragon. «Non sapevamo se saresti sopravvissuta.»
«Ecco perché sono venuta qui oggi» disse lei, voltandosi. La sua voce morbida aveva un forte accento esotico, e vibrava appena come se fosse sul punto di mettersi a cantare. «Sono in debito con te. Mi hai salvato la vita. Non lo dimenticherò mai.»
«Non... non è stato niente» balbettò Eragon imbarazzato, pur sapendo che non era vero. Si affrettò a cambiare discorso. «Come sei finita a Gil’ead?»
Il volto di lei fu attraversato da un’ombra di dolore, e l’elfa distolse lo sguardo. «Vieni, camminiamo.» Scesero dal poggio e si addentrarono nel Farthen Dùr. Eragon rispettò il silenzio di Arya mentre passeggiavano. Saphira li seguiva. Infine Arya alzò la testa e parlò con la grazia della sua razza: «Ajihad mi ha detto che eri presente quando è apparso l’uovo di Saphira.»
«Sì.» Per la prima volta, Eragon si rese conto dell’energia che doveva essere stata necessaria per trasportare l’uovo per le decine di leghe che separavano la Du Weldenvarden dalla Grande Dorsale. Anche solo tentare un simile gesto voleva dire andare incontro al disastro, se non alla morte. Le parole dell’elfa furono gravi. «Allora sappi una cosa: nel momento stesso in cui lo raccoglievi, io venivo catturata da Durza.» La sua voce era carica di amarezza e dolore. «Era lui a comandare gli Urgali che mi tesero l’agguato e uccisero i miei compagni. Faolin e Glenwing. Chissà come sapeva dove aspettarci... non eravamo preparati. Mi drogarono e mi portarono a Gil’ead. Lì Durza fu incaricato da Galbatorix di scoprire dove avevo mandato l’uovo e tutto ciò che sapevo di Ellesméra.»
I suoi occhi erano di ghiaccio, la mascella serrata. «Durza tentò in tutti i modi, per mesi, senza successo. Quando non ci riuscì nemmeno con la tortura, ordinò ai suoi soldati di usarmi a loro piacere. Per fortuna ebbi ancora la forza per annebbiare le loro menti e renderli incapaci. Infine Galbatorix ordinò di portarmi a Urù’baen. A questa notizia ebbi davvero paura, perché ero troppo debole nel corpo e nella mente per resistergli. Se non fosse stato per te, sarei finita davanti a Galbatorix nel giro di una settimana.»
Eragon rabbrividì. Era sorprendente sapere a che cosa era sopravvissuta. Il ricordo delle sue ferite era ancora vivido nella sua memoria. Dolcemente, chiese: «Perché mi dici tutto questo?»
«Perché tu sappia da che cosa mi hai salvata. Non credere che possa ignorare il tuo gesto.»
Eragon chinò la testa umilmente. «Che cosa farai adesso... tornerai a Ellesméra?»
«No, non subito. C’è tanto da fare, qui. Non posso abbandonare i Varden. Ajihad ha bisogno del mio aiuto. Oggi ti ho visto alla prova sia con le armi che con la magia. Brom ti ha insegnato bene. Sei pronto per proseguire il tuo addestramento.»
«Vuoi dire a Ellesméra?»
«Sì.»
Eragon avvertì una punta dì irritazione. Lui e Saphira non avevano dunque voce in capitolo?
«Quando?»
«Questo si deve ancora decidere, ma comunque non prima di qualche settimana.»
Almeno ci danno altro tempo, pensò Eragon, Saphira gli disse qualcosa, e lui a sua volta chiese ad Arya: «Che cosa volevano da me i Gemelli?»
Le labbra ben disegnate di Arya si curvarono in una smorfia. «Qualcosa che nemmeno loro sanno fare. È possibile pronunciare il nome di un oggetto nell’antica lingua ed evocarne l’essenza. Ci vogliono anni di esercizio e grande disciplina, ma la ricompensa è il totale controllo sugli oggetti. Ecco perché il vero nome di ciascuno è tenuto segreto, perché se fosse noto a un individuo malvagio, potrebbe dominarti.»
«È strano» disse Eragon dopo un istante. «ma prima di essere catturato a Gil’ead, ti ho vista più di una volta in sogno. Era come la divinazione... e in seguito sono stato in grado di vederti.,. ma sempre durante il sonno.»
Arya strinse le labbra, pensierosa. «C’erano momenti in cui avvertivo un’altra presenza accanto a me, ma ero spesso confusa e febbricitante. Non ho mai sentito parlare, né nelle leggende né nella storia, di qualcuno capace di divinare nel sonno.»
«Nemmeno io capisco» disse Eragon, guardandosi le mani. Si rigirò l’anello di Brom intorno all’indice. «Che cosa significa il tatuaggio che hai sulla spalla? Sai, non avevo intenzione di vederlo, ma stavo curando le tue ferite... non ho potuto farne a meno. È uguale al simbolo su quest’anello.»
«Hai un anello con lo yawé?» esclamò lei, incredula.
«Sì. Era di Brom. Vedi?»
Le porse l’anello. Arya esaminò lo zaffiro, poi disse lentamente: «È un pegno dato soltanto ai più preziosi amici degli elfi…tanto prezioso, in effetti, che non si usa da secoli. O almeno, così credevo. Non ho mai saputo che la regina Islandazi avesse una così alta considerazione di Brom.»
«Allora non dovrei portarlo» disse Eragon, temendo di apparire presuntuoso.
«No, tienilo, invece. Ti darà protezione se dovessi imbatterti nel mio popolo, e potrebbe aiutarti a conquistare i favori della regina. Non dire a nessuno del mio tatuaggio. È un segreto da non rivelare.»
«D’accordo.»
Parlare con Arya gli piacque immensamente, e avrebbe voluto che la conversazione durasse di più. Quando si separarono, Eragon continuò a passeggiare nel Farthen Dùr, chiacchierando con Saphira. Malgrado le sue insistenze, la dragonessa si rifiutò di raccontargli che cosa le aveva detto Arya. Alla fine rivolse i suoi pensieri a Murtagh e a quanto gli aveva suggerito Nasuada. Mangerò qualcosa e poi andrò a fargli visita, decise. Mi aspetti? Così torniamo insieme sulla rocca.
Ti aspetto... vai, rispose Saphira.
Con un sorriso riconoscente, Eragon corse a Tronjheim, pranzò nell’angolo buio di una cucina, poi seguì le istruzioni di Nasuada fino a raggiungere una piccola porta grigia, sorvegliata da un umano e da un nano. Quando chiese di entrare, il nano bussò tre volte alla porta, poi aprì la serratura. «Basta che tu ci dia una voce quando vorrai uscire» disse l’uomo con un sorriso amichevole.
La cella era calda e bene illuminata, con un tavolino e una brocca in un angolo e uno scrittoio, con tanto di penne e inchiostro, nell’altro. Il soffitto era decorato da figure di lacca; il pavimento coperto da un folto tappeto. Murtagh era disteso su un solido letto, intento a leggere una pergamena. Alzò gli occhi sorpreso ed esclamò allegro: «Eragon! Ci contavo proprio, che venissi!»