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Un globo ardente guizzò dalla sua mano verso l’elfa, fulmineo come una saetta. Ma era troppo tardi. Un lampo di luce verde illuminò per un istante l’intera forestale la gemma scomparve. Poi il globo di fuoco colpì l’elfa, che cadde riversa al suolo.

Lo Spettro ululò di rabbia e scagliò la spada contro un albero. La lama penetrò per metà nel tronco, dove rimase conficcata, vibrando. Lo Spettro scagliò nove globi di energia che uccisero sul colpo gli Urgali, poi liberò la spada e si avvicinò all’elfa.

Dalla sua gola sgorgò un fiotto di parole: profezie di vendetta, pronunciate in una lingua abietta che soltanto lui conosceva. Strinse i pugni e levò gli occhi al cielo. Le fredde stelle ricambiarono il suo sguardo, occhi indifferenti di .un altro mondo. Lo Spettro fece una smorfia di disgusto e abbassò lo sguardo sull’elfa priva di sensi.

La sua bellezza, in grado di ammaliare qualsiasi mortale, non sortiva alcun effetto su di lui. Si accertò che la gemma fosse davvero scomparsa, poi recuperò la propria cavalcatura dal nascondiglio in mezzo agli alberi. Legò l’elfa sulla sella, montò in groppa a sua volta e si avviò per uscire dal bosco.

Spense gli incendi sul suo cammino, ma lasciò che tutto il resto venisse consumato dal fuoco.

1

Il ritrovamento

Eragon s’inginocchiò su un mucchio di canne calpestate e studiò le tracce con occhio esperto: i cervi dovevano essere passati non più di mezz’ora prima. Presto si sarebbero fermati per riposare. Il suo obiettivo, una giovane femmina vistosamente zoppa, era ancora col branco. Strano che non fosse già caduta preda di un lupo o di un orso.

Il cielo scuro era sereno; spirava una brezza leggera. Una nube d’argento indugiò sulle montagne intorno, i bordi frastagliati illuminati dal bagliore rossastro della luna nascosta fra due picchi. Era il plenilunio più vicino all’equinozio d’autunno. Lungo le pendici dei monti scorrevano molti ruscelli: scendevano dai ghiacciai perenni e dagli scintillanti cappucci nevosi. Una cupa nebbia aleggiava sul fondo della valle, tanto densa da nascondergli i piedi.

Eragon aveva quindici anni; un anno soltanto lo separava dall’ingresso nella vita adulta. I suoi penetranti occhi nocciola erano sormontati da sopracciglia scure. I suoi abiti erano logori. Alla cintura portava un pugnale dal manico d’osso e una guaina di pelle di camoscio proteggeva il suo arco di legno di tasso dall’umidità. In spalla aveva uno zaino dall’intelaiatura di légno. I cervi lo avevano costretto ad addentrarsi sulla Grande Dorsale, una catena di monti selvaggi che si estendeva lungo tutto il territorio di Alagasëia. Spesso da quelle montagne provenivano funeste leggende e uomini misteriosi. Malgrado ciò, Eragon non aveva paura della Grande Dorsale: era l’unico cacciatore nei dintorni di Carvahall che osasse inseguire la selvaggina fin nei suoi più oscuri recessi..

Era la sua terza notte di caccia, e le scorte di cibo cominciavano a scarseggiare. Se non fosse riuscito ad abbattere quella ferrumina al più presto, gli sarebbe toccato tornare a casa a mani vuote. La sua famiglia aveva bisogno di carne perché ormai l’inverno era vicino, e non poteva permettersi di comprarla a Carvahall.

Eragon si rialzò fiducioso al chiaro di luna, poi si inoltrò nella foresta, diretto verso una piccola valle dov’era sicuro che i cervi si sarebbero fermati. Le folte chiome degli alberi gli impedivano di scorgere il cielo e gettavano ambigue ombre sul terreno. Ma Eragon conosceva bene la strada, e solo di tanto in tanto abbassava lo sguardo per controllare il sentiero.

Una volta raggiunta la piccola valle, incordò l’arco e prese tre frecce. Ne incoccò una, reggendo le altre due nella sinistra. La luce lunare rivelò una ventina di sagome immobili: i cervi che riposavano sull’erba. La femmina che cercava era ai margini del branco, la zampa ferita tesa davanti a sé. Eragon si avvicinò silenzioso, tenendo pronto l’arco. Tutta la fatica dei tre giorni precedenti lo aveva guidato a quel momento. Inspirò a fondo prima di scoccare la freccia: e un’esplosione squarciò la notte.

Il branco si alzò di scatto e prese a fuggire in tutte le direzioni. Eragon si slanciò all’inseguimento sul prato, mentre un vento impetuoso gli sferzava il viso. Si fermò e scoccò una freccia contro la zoppicante femmina in fuga. La mancò di un soffio; la freccia si perse sibilando nel buio. Il ragazzo imprecò e si volse per prendere un’altra freccia.

Alle sue spalle, dove pochi istanti prima riposava il branco di cervi, si allargava un ampio spiazzo d’erba e alberi bruciati. Molti pini avevano perso gli aghi. L’erba fuori dal cerchio annerito era schiacciata. Una voluta di, fumo si alzò, emanando un forte odore di bruciato. Al centro dello spiazzo devastato c’era una lucida pietra blu. La nebbia serpeggiò nell’area incenerita, accarezzando la pietra con tentacoli impalpabili.

Eragon attese diversi minuti che il pericolo si mostrasse, ma runica cosa che si muoveva era la nebbia. Con estrema cautela, allentò la presa sull’arco e avanzò. La luna proiettava una pallida luce quando il ragazzo si fermò davanti alla pietra. La toccò con la punta di una freccia, poi fece un balzo indietro. Non successe nulla. Si fece coraggio e la raccolse.

La natura non avrebbe mai potuto levigare una pietra in quel modo. La sua superficie perfetta era di un blu intenso, venato da una sottile ragnatela di striature bianche. La pietra era fredda e liscia al tatto, come seta solidificata. Lunga circa un piede, di forma ovale, pesava qualche libbra, ma era più leggera di quanto si fosse aspettato.

La pietra lo affascinava e turbava al tempo stesso. Da dove viene? Ha uno scopo? All’improvviso gli attraversò la mente un pensiero ancora più inquietante: È caduta per caso, o ero destinato a trovarla? Se le antiche leggende gli avevano insegnato qualcosa, era che la magia e chi ne faceva uso dovevano essere trattati con cauto rispetto.

Ma cosa devo fare di questa pietra? Sarebbe stato faticoso trasportarla, e chissà, magari anche pericoloso. Forse doveva lasciarla dov’era. Si sentì pervadere da un fremito di indecisione, fu lì lì per lasciarla cadere, quando qualcosa lo trattenne. Se non altro, mi servirà a comprare del cibo. Scrollò le spalle e infilò la pietra nello zaino.

La valletta era troppo esposta per accamparsi al sicuro, così tornò nella foresta e si preparò un giaciglio sotto le radici divelte di un albero caduto. Dopo una cena fredda a base di pane e formaggio, si avvolse nelle coperte e si addormentò pensando a quanto era accaduto.

2

La valle Palancar

Il mattino dopo, il sole sorse in un’abbagliante esplosione di rosa e giallo. L’aria era salubre, dolce, e molto fredda. Le rive dei torrenti erano coperte di brina, e i piccoli stagni erano del tutto gelati. Eragon mangiò una scodella di pappa d’avena per colazione, poi tornò nella valletta per osservare di nuovo l’area bruciata. La luce del mattino non rivelò altri dettagli, così si avviò verso casa.

Il vecchio sentiero di caccia si distingueva a malapena, e in alcuni punti scompariva del tutto; tracciato dal passaggio degli animali, spesso si annodava su se stesso o si perdeva in lunghe deviazioni, ma restava pur sempre la via più rapida per uscire dalle montagne.

La Grande Dorsale era uno dei rari luoghi che re Galbatorix non poteva includere nei propri domini. Ancora si narrava la tetra leggenda secondo cui metà del suo esercito era scomparso dopo essere entrato nell’antica foresta, sempre avvolta da un alone di misteriosa sventura. Sebbene gli alberi crescessero abbondanti e il sole splendesse sereno, erano pochi coloro che sostavano a lungo sulla Grande Dorsale senza subire un.incidente di qualche sorta, Eragon era uno di quei pochi. In cuor suo il ragazzo non era convinto di possedere chissà quale talento: attribuiva la sua buona sorte alla costante vigilanza e ai suoi pronti riflessi. Vagava sulle montagne da anni; non ne aveva paura, ma le considerava con una sorta di cauto rispetto. Ogni volta che credeva di aver scoperto tutti i loro segreti, accadeva sempre qualcosa che ridimensionava la sua presunzione di conoscerle a fondo: come la comparsa della pietra.