Andando di buon passo, si lasciò alle spalle parecchie leghe. A tarda sera raggiunse l’orlo di un precipizio: in fondo spumeggiava l’Anora, il fiume che attraversava la Valle Palancar. Alimentato da centinaia di torrenti, era come un essere vivente dotato di forza bruta, che lottava contro ogni scoglio o macigno che gli sbarrasse la via, brontolando a gran voce.
Eragon si accampò in un boschetto vicino al burrone e contemplò a lungo la luna prima di addormentarsi.
Passò ancora un giorno e mezzo; il freddo aumentava, Eragon viaggiava spedito, senza badare alla natura che lo circondava. Poco dopo mezzogiorno sentì il fragore delle Cascate di Iguàlda, che cancellava ogni altro suono. Il sentiero lo condusse vicino a una cresta rocciosa e viscida, che il fiume lambiva impetuoso prima di precipitare e frangersi sulle colline verdeggianti.
Davanti a lui si estendeva la Valle Palancar, vasta e piatta come una mappa dispiegata. La base delle Cascate di Igualda, oltre mezzo miglio più sotto, era il punto più a nord della valle. A poca distanza dalle cascate sorgeva Carvahall, un grumo di edifici scuri. Dai comignoli si levavano bianchi fili di fumò, come a sfidare il panorama selvaggio. Da quell’altezza le fattorie apparivano come tanti quadretti non più grandi del suo polpastrello; la terra attorno era marrone, giallastra dove l’erba secca ondeggiava nel vento. Dalle cascate, l’Anora proseguiva il suo corso sinuoso fino all’estremità sud della Valle Palancar, un nastro d’argento che rifletteva i raggi del sole. In lontananza scorreva vicino al villaggio di Therinsford e al solitario Monte Utgard. Poi Eragon sapeva soltanto che curvava a nord per gettarsi in mare.
Dopo la breve sosta, .Eragon prese a scendere lungo il sentiero. Raggiunse il fondo quando il morbido crepuscolo già avvolgeva ogni cosa, sfumando i colori in grigie macchie indistinte. Le luci di Carvahall brillavano nell’oscurità; le case proiettavano lunghe ombre. A parte Theririsford. Carvahall era l’unico altro villaggio della Valle Palancar. Il paese era isolato e circondato da terre aspre e bellissime. Pochi vi si avventuravano, a parte gli erranti e i cacciatori.
Le case erano tozze costruzioni di legno, con tetti bassi di tegole o paglia. Il fumo che usciva dai comignoli diffondeva nell’aria un forte odore di legna. Dalle costruzioni sporgevano ampi portici coperti dove la gente si riuniva per scambi di chiacchiere o affari; poche erano le finestre illuminate, da una candela o da una lampada accesa. Eragon sentì degli uomini parlare ad alta voce nella fredda aria serale, e donne che andavano a recuperare i mariti e li rimproveravano perché erano in ritardo. Il ragazzo proseguì verso la bottega del macellaio, une grossa capanna di larghe assi di legno. Il comignolo eruttava un denso fumo nero.
Aprì la porta. L’ambiente spazioso era riscaldato e illuminato da un fuoco che scoppiettava nel caminetto di pietra. Lungo la parete in fondo correva un bancone disadorno; sul pavimento era sparsa della paglia; Tutto era scrupolosamente pulito, come se il proprietario amasse trascorrere il suo tempo liberò alla ricerca del più minuscolo granello di polvere. Dietro al bancone c’era il macellaio Sloan, un ometto che indossava una camicia di cotone e un grembiule macchiato di sangue. Dalla cintura gli pendeva un’impressionante serie di coltelli. Sul volto giallastro e butterato spiccavano occhietti neri e sospettosi. Stava pulendo il banco con uno straccio.
Sloan fece una smorfia non appena vide entrare Eragon. «Bene bene, il divìn cacciatore è tornato fra noi poveri mortali. Quante prede hai ucciso questa volta?»
«Nessuna» tagliò corto Eragon. Non gli era mai piaciuto Sloan. Il macellaio lo trattava sempre come se fosse un essere spregevole, Sloan era vedovo, e l’unica persona che gli stava a cuore era sua figlia Katrina.
«Sono sorpreso» disse Sloan, ostentando falso stupore. Gli volse la schiena per raschiare qualcosa dal muro. «Ed è questa la ragione per cui sei venuto?»
«Sì» ammise Eragon con aria mesta.
«In tal caso, vediamo prima i soldi.» Sloan tamburellò con le dita sul banco, in attesa, ma Eragon rimase in silenzio, spostando il peso del corpo da un piede all’altro. «Avanti.., li hai o no?»
«Non ho soldi, ma...»
«Cosa? Niente soldi?» lo interruppe il macellaio. «E vorresti comprare della carne! Pensi forse che gli altri negozianti regalino così la loro merce? Dovrei darti la carne senza farti pagare? E poi è tardi» disse in tono brusco. «Torna domani con ì soldi. Per oggi ho chiuso.»
Eragon lo guardò con ostilità. «Non posso aspettare fino a domani, Slòan. Però ti assicuro che quello che ho trovato ti ricompenserà ampiamente.» Estrasse la pietra dallo zaino con un gesto teatrale e la depose con delicatezza sul bancone scalfito, dove sfavillò di luce riflessa dalle fiamme tremolanti.
«Rubato, piuttosto» borbottò Sloan, esaminando l’oggetto con interesse.
Eragon ignorò il commento e disse: «Basta?»
Sloan prese la pietra e la soppesò con aria pensosa; fece scorrere le dita sulla sua superficie levigata e ne scrutò le venature candide. Con uno sguardo perplesso, la rimise sul banco. «Bella, ma quanto vale?»
«Non lo so» ammise Eragon. «ma nessuno si sarebbe preso la briga di lavorarla così bene se non valesse niente, ti pare?»
«Mi pare» ribatte Sloan spazientito. «Ma quanto vale? Visto che non lo sai, ti suggerisco di trovare un mercante che lo sappia, oppure di accettare la mia offerta di tre corone.»
«Che miseria! Deve valere almeno dieci volte tanto» protestò Eragon. Tre corone sarebbero bastate a comprare carne per appena una settimana.
Sloan scrollò le spalle. «Se non ti piace la mia offerta, aspetta l’arrivo degli erranti. E comunque ne ho abbastanza di questa conversazione.»
Gli erranti erano un gruppo nomade di mercanti e saltimbanchi che passavano da Carvahall ogni primavera e inverno. Compravano le eccedenze di quanto gli artigiani e i contadini locali fabbricavano e coltivavano, e vendevano loro il necessario per sopravvivere un altro anno: sementi, animali, stoffe, scorte di sale e zucchero.
Ma Eragon non poteva aspettare il loro arrivo: ci sarebbe voluto ancora troppo tempo, e la sua famiglia aveva bisogno della carne subito. «D’accordo, accetto» sibilò.
«Bene, ti vado a prendere la carne. Non che abbia importanza, ma dove l’hai trovata?»
«Due notti fa, sulla Grande Dorsa...»
«Fuori!» esclamò Sloan, e respinse la pietra. Arretrò fino all’estremità opposta del bancone e si diede a ripulire certe vecchie macchie di sangue da un coltello.
«Perché?» chiese Eragon, attirando a sé la pietra, come per proteggerla dall’ira di Sloan.
«Non voglio aver niente a che fare con quelle dannate montagne! Porta quella tua pietra stregata da qualche altra parte.» La mano di Sloan scivolò all’improvviso, e il macellaio si tagliò un dito, ma non parve farci caso. Continuò a strofinare la lama, macchiandola di sangue fresco.
«Ti rifiuti di vendermi la carne?»
«Già! A meno che non me la paghi con moneta sonante» grugnì Sloan, puntando il coltello verso Eragon, senza smettere di indietreggiare. «Vattene, prima di finire sventrato!»
In quel momento la porta si spalancò di colpo. Eragon si volse di scatto, temendo nuovi guai in arrivo. Nella bottega si fece avanti Horst, un uomo alto e massiccio, seguito a ruota da Katrina, una sedicenne alta, dall’espressione volitiva. Eragon fu sorpreso nel vederla; di solito si teneva alla larga dal padre quando tirava una brutta aria. Sloan li guardò circospetto, poi prese ad accusare Eragon.
«Non vuole...»
«Taci» tuonò Horst, facendo schioccare le nocche. Era il fabbro di Carvahall, come testimoniavano il suo collo taurino e il grembiule di cuoio graffiato; dalla camicia gli spuntava un folto ciuffo di peli. La lunga barba nera tremò quando serrò la mascella. «Sloan, cos’hai combinato stavolta?»
«Niente.» Il macellaio scoccò a Eragon uno sguardo omicida, poi sputò. «Questo... moccioso è entrato e ha cominciato a infastidirmi. Gli ho detto di andarsene, ma non si è mosso. L’ho minacciato, ma lui mi ha ignorato!» Sloan parve rimpicciolire sotto lo sguardo severo di Horst.