Immerso nei suoi pensieri, si accorse di essere davanti alla cattedrale soltanto quando la vide di fronte a sé. Le sue guglie contorte erano coperte di statue e volute; dalle grondaie si affacciavano ghignanti gargoyle. Bestie fantastiche affollavano le mura, mentre re ed eroi marciavano lungo i bordi più bassi, paralizzati nel gelo del marmo. Archivolti e vetrate istoriate costeggiavano i fianchi della cattedrale, insieme a pilastri di varie misure. Una torretta solitaria sormontava l’edificio come l’albero maestro di un vascello.
Incassato nell’ombra della facciata c’era un portale di ferro intarsiato di scritte d’argento che Eragon riconobbe come l’antica lingua. Cercò di decifrarle come poteva: O tu che varchi questa soglia, rammenta la tua caducità e dimentica l’attaccamento alle cose che ami.
L’intera costruzione gli fece correre un brivido lungo la schiena. C’era qualcosa di minaccioso in essa, come se fosse un predatore acquattato nella città, in attesa della prossima vittima. Un’ampia scalinata portava all’ingresso. Eragon si avviò con passo solenne lungo i gradini, e si fermò davanti al portale. Chissà se posso entrare. Con un lieve senso di colpa, spinse il battente. La porta si aprì docile, scivolando su cardini ben oliati. Fece un passo ed entrò.
Il silenzio di una tomba dimenticata riempiva la cattedrale deserta. L’aria era fredda e asciutta. Le pareti spoglie si innalzavano fino a un soffitto a volta che fece sentire Eragon non più grande di una formica. Le vetrate che illustravano scene di rabbia, odio e rimorso squarciavano le pareti, mentre raggi di luce spettrale bagnavano i banchi di granito, lasciando il resto in ombra. Le mani di Eragon avevano un colorito azzurregnolo.
Fra le vetrate c’erano alte statue dagli occhi fissi e pallidi. Ricambiò il loro sguardo severo, poi si avviò lentamente per la navata centrale, temendo di disturbare la quiete. Il rumore ovattato dei suoi stivali di cuoio sul pavimento di pietra levigata sembrava una serie di esplosioni.
L’altare era una grande lastra di pietra priva di qualsiasi ornamento. Un solitario raggio di luce pioveva su di esso, illuminando il sottile turbinio dorato della polvere sospesa. Dietro l’altare, le canne di un organo a vento bucavano il soffitto e si esponevano agli elementi. L’aveva sentito raccontare: lo strumento suonava la sua musica solo quando una tempesta si abbatteva su Dras-
Leona.
Per rispetto, Eragon s’inginocchiò davanti all’altare e chinò il capo. Non pregò alcuna divinità, ma rese omaggio alla cattedrale. Le sue pietre trasudavano la sofferenza di cui erano state testimoni, in netto contrasto con le sgradevoli, pompose cerimonie che tra esse avvenivano. Era un luogo ostile, gelido, nudo. In quell’atmosfera fredda, però, si coglieva un barlume di eternità e forse dei poteri in essa racchiusi.
Eragon chinò di nuovo il capo e si alzò. Calmo e solenne, mormorò a se stesso parole nell’antica lingua; poi si voltò per uscire. S’impietrì. Il suo cuore fece un balzo nel petto e prese a martellare come un tamburo.
Sulla soglia della cattedrale c’erano i Ra’zac, e lo, guardavano intenti. Avevano le spade sguainate, le lame mortifere accese di una luce cremisi. Il Ra’zac più piccolo emise un sibilo roco, ma nessuno dei due si mosse.
Eragon sentì montare la collera. Aveva inseguito i Ra’zac per così tante settimane che il dolore per il loro gesto scellerato si era sopito dentro di lui. Ma la vendetta era a portata di mano. La sua ira esplose come un vulcano, alimentata dalla furia repressa per la scena degli schiavi. Dalle sue labbra uscì un ruggito che echeggiò come un rombo di tuono mentre impugnava l’arco. Con destrezza, incoccò una freccia e la scagliò, seguita subito da altre due.
I Ra’zac schivarono i dardi con rapidità disumana, poi corsero sibilando lungo il passaggio fra i banchi, i mantelli che fluttuavano come ali di corvo. Eragon fece per prendere un’altra freccia quando la prudenza gli fermò la mano. Se sapevano dove trovarmi, allora anche Brom è in pericolo! Devo avvertirlo! In quel momento, con suo sommo orrore, Eragon vide entrare nella cattedrale un folto drappello di soldati, mentre altri si affollavano all’esterno, oltre il portale. Guardò con odio i Ra’zac che correvano verso di lui, poi si volse in cerca di una via di fuga. Notò un vestibolo alla sinistra dell’altare. Sfrecciò sotto l’arco e imboccò un corridoio che portava nella sagrestia. Il rumore dei passi dei Ra’zac alle sue spalle gli fece accelerare il passo, finché non si ritrovò davanti a una porta chiusa.
La prese a pugni e calci nel tentativo di aprirla, ma il legno era troppo robusto. I Ra’zac lo avevano quasi raggiunto. In preda al panico, inspirò a fondo e urlò: «Jierda!» Con un lampo, la porta si infranse e cadde di schianto. Eragon la scavalcò con un balzo e riprese a correre.
Attraversò una serie di stanze, spaventando un gruppo di sacerdoti che gli gridarono invettive. La campana della sagrestia suonò l’allarme. Eragon piombò nella cucina, dove c’erano due monaci, e infine varcò una porticina secondaria che dava su di un giardino. Con sgomento si accorse che tutt’intorno correva un alto muro di mattoni senza alcun appiglio, e che non c’erano altre uscite. Eragon si voltò per riprendere la fuga, ma udì un sibilo sordo quando i Ra’zac spalancarono la porta con una spallata. Disperato, corse verso il muro. La magia non gli sarebbe stata di alcun aiuto: se l’avesse usata per aprire una breccia nel muro, poi sarebbe stato troppo stanco per fuggire. Saltò. Perfino con le braccia tese al massimo, soltanto le sue dita riuscirono ad arrivare al bordo del muro, mentre il resto del corpo urtò contro i duri mattoni, mozzandogli il fiato. Rimase aggrappato e ansante, sforzandosi di non cedere. Sentì i Ra’zac che setacciavano il giardino, spostandosi veloci e nervosi come segugi che fiutano la preda.
Eragon li sentì avvicinarsi e si issò sulle braccia. Le spalle gli urlarono di dolore, ma riuscì ad arrivare in cima, e si lasciò cadere dall’altra parte. Inciampò, riprese l’equilibrio e si precipitò in un vicolo nel momento in cui i Ra’zac scavalcavano il muro con un balzo. Concentrato, Eragon infuse maggiore energia nella corsa.
Corse per oltre un miglio prima di avere il coraggio di fermarsi a riprendere fiato. Non del tutto certo di aver seminato gli inseguitori, trovò un mercato affollato e si nascose sotto un carro. Come hanno fatto a trovarmi? si chiese, ansimando. Non potevano sapere dov’ero... a meno che non sia successo qualcosa a Brom! Raggiunse Saphira con la mente e le disse: I Ra’zac mi hanno trovato.
Siamo tutti in pericolo! Cerca Brom e assicurati che stia bene. Mettilo in guardia e digli che ci incontreremo alla locanda. E sta’ pronta a volare lì il più in fretta possibile. Forse ci servirà il tuo aiuto per fuggire.
La dragonessa tacque per qualche istante, poi disse: Brom verrà alla locanda. Non ti fermare: sei in grave pericolo!
«Come se non lo sapessi» borbottò Eragon, rotolando fuori da sotto il carro. Tornò di corsa al Globo d’Oro, fece in fretta i bagagli, sellò i cavalli e li condusse sulla strada.
Brom arrivò poco dopo, scuro in volto, il bastone in pugno. Salì in groppa a Fiammabianca e disse:
«Che cosa è successo?»
«Ero nella cattedrale quando i Ra’zac sono sbucati dal nulla» rispose Eragon, montando su Cadoc.
«Sono tornato più in fretta che potevo, ma potrebbero arrivare qui da un momento all’altro. Saphira ci raggiungerà non appena saremo fuori da Dras-Leona.»
«Dobbiamo uscire dalle mura della città prima che chiudano i cancelli... se non l’hanno già fatto» disse Brom. «Altrimenti sarà, impossibile fuggire. Qualunque cosa accada, stammi incollato.»
Eragon si irrigidì quando vide marciare in fondo alla strada un plotone in uniforme.
Brom lanciò un’imprecazione e sferzò Fiammabianca con le redini, spronandolo al galoppo. Eragon si chinò sul dorso di Cadoc e lo seguì a ruota. Durante la corsa selvaggia e disperata, più di una volta furono sul punto di scontrarsi, mentre piombavano fra la gente che affollava le strade e scartavano all’improvviso per evitarla, diretti verso le mura della città. Quando alla fine giunsero in vista dei cancelli, Eragon tirò le redini di Cadoc, sgomento. I cancelli erano già chiusi per metà, e una doppia fila di picchieri era schierata a sbarrar loro la strada.