«Ci faranno a pezzi!» gridò.
«Dobbiamo tentare» disse Brom in tono severo. «Io mi occuperò dei soldati, ma tu devi tenere aperti i cancelli.» Eragon annuì, strinse i denti e affondò i talloni nei fianchi di Cadoc. Galopparono verso i soldati, che abbassarono le picche contro i cavalli, puntellandole sul terreno. I cavalli nitrirono di paura, ma Brom ed Eragon riuscirono a non perdere il controllo. Eragon sentì i soldati gridare, ma concentrò la sua attenzione sui cancelli che si chiudevano a poco a poco. Mentre si avvicinava alle picche acuminate. Brom alzò una mano e parlò. Le parole colpirono con precisione: i soldati caddero ai lati dei cancelli come se avessero tagliato loro le gambe. Il varco fra i battenti si rimpiccioliva ogni istante di più. Sperando che lo sforzo non fosse troppo per lui, Eragon evocò il proprio potere e gridò: «Du grind huildr!»
I cancelli furono scossi da una sorda vibrazione metallica e si fermarono. La folla e le guardie ammutolirono, guardando la scena sbigottite. In un gran fragore di zoccoli. Brom ed Eragon galopparono oltre i cancelli. Non appena furono fuori dalle mura di Dras-Leona, Eragon lasciò andare i cancelli, che si chiusero con un fragoroso rimbombo,
Il ragazzo. vacillò per la stanchezza improvvisa, ma riuscì a reggersi in sella. Brom gli scoccò uno sguardo preoccupato. La loro fuga proseguì attraverso la campagna di Dras-Leona, mentre dall’interno della città si udivano squillare le trombe di allarme. Saphira li aspettava poco lontano, nascosta in un boschetto. I suoi occhi lampeggia-vano, la coda guizzava da un lato e dall’altro. «Va’, monta su di lei» disse Brom. «E questa volta resta in aria, qualunque cosa mi accada. Andrò a sud. Vola vicino, tanto non ha più importanza se qualcuno scorge Saphira.» Eragon si affrettò a salire in groppa alla dragonessa. Mentre il terre-no si allontanava sotto i suoi piedi, Eragon guardò Bron galoppare lungo la strada.
Stai bene? gli chiese la dragonessa.
Si, rispose Eragon. Ma solo perché abbiamo avuto la fortuna dalla nostra,
Saphira soffiò uno sbuffo di fumo dalle narici. Tutto il tempo che abbiamo impiegato per cercare i Ra’zac è stato inutile.
Lo so, disse lui, abbandonando la testa sul suo collo squamoso. Se i Ra’zac fossero stati da soli, sarei rimasto a combattere. Ma con tutti quei soldati al loro fianco, era impossibile!
Ma lo sai che adesso si farà un gran parlare di noi? Non è stata di certo una fuga sommessa. Ora sfuggire alle grinfie dell’Impero sarà più difficile che mai Eragon notò nella voce dì Saphira una strana sfumatura nervosa a cui non era abituato.
Lo so.
Volavano bassi e veloci sulla strada. Il Lago di Leona rimpicciolì alle loro spalle; il paesaggio divenne, arido e roccioso, punteggiato da arbusti spinosi e alti cactus. Il cielo si andava riempiendo di nubi. In lontananza balenavano i lampi. Quando il vento prese a ululare, Saphira planò accanto a Brom. Il vecchio fermò i cavalli e chiese; «Che cosa succede?»
«Il vento è troppo forte.»
«Non mi pare» obiettò Brom.
«Lassù sì» ribatte Eragon, indicando il cielo.
Brom imprecò a denti stretti e gli passò le redini di Cadoc. Ripresero a trottare, con Saphira che li seguiva a piedi, anche se sul terreno aveva difficoltà a tenere il passo con i cavalli.
La tempesta crebbe d’intensità, sollevando mulinelli di sabbia che vorticavano come dervisci. I due si avvolsero sciarpe attorno, alla testa per proteggersi gli occhi dalla polvere. Il mantello di Brom volava nel vento, la sua barba schioccava come una frusta animata di vita propria. La pioggia avrebbe peggiorato la situazione, ma Eragon sperò che cadesse in fretta, in modo da cancellare le loro tracce.
Ben presto il buio li costrinse a fermarsi. Con le sole stelle come guida, lasciarono la strada e si accamparono fra due grossi massi. Era troppo pericoloso accendere un falò, così consumarono una cena fredda mentre Saphira li riparava dal vento.
Dopo quel pasto frugale, Eragon chiese all’improvviso: «Come hanno fatto a trovarci?»
Brom fece per accendersi la pipa, ma ci ripensò e la mise in tasca. «Uno dei servi del palazzo mi aveva avvertito che c’erano delle spie fra loro. In qualche modo Tàbor deve aver saputo di me e delle mie domande... e da lui la notizia è arrivata ai Ra’zac.»
«Non possiamo tornare a Dras-Leona, vero?» disse Eragon.
Brom scosse la testa. «No, almeno per qualche anno.»
Eragon si tenne la testa fra le mani. «Allora dobbiamo attirare i Ra’zac fuori dalla città? Se facciamo in modo che vedano Saphira, accorreranno in gran fretta.»
«Già, con una cinquantina di soldati al seguito» disse Brom. «Senti, non è il momento di discuterne adesso. Ora come ora l’importante è restare vivi. Questa notte sarà la più pericolosa, perché i Ra’zac ci daranno la caccia nel buio, ossia quando sono più forti. Dobbiamo montare di guardia a turno fino a domattina.»
«Giusto» disse Eragon, e si alzò. Esitò e socchiuse gli occhi; gli era parso di vedere un movimento, una macchia di colore nel buio fitto che li circondava. Si allontanò di qualche passo per vedere meglio.
«Cosa c’è?» domandò Brom, srotolando le coperte.
Eragon; scrutò le tenebre, poi si voltò. «Non lo so. Mi è sembrato di vedere qualcosa. Dev’essere stato un uccello.» Un dolore lancinante lo trafisse alla nuca, mentre Saphira ruggiva. Poi cadde a terra privo di sensi.
35
La vendetta dei Ra’zac
Un sordo pulsare alla testa svegliò Eragon. Ogni volta che affluiva sangue al cervello, era una nuova ondata di dolore. Socchiuse gli occhi e fece una smorfia; gli vennero le lacrime agli occhi mentre guardava la luce di una lanterna. Battè le palpebre e distolse lo sguardo. Quando cercò di alzarsi a sedere, si rese conto di avere le mani legate dietro la schiena. Si voltò, intorpidito, e vide le braccia di Brom. Si sentì sollevato scoprendo che erano legati insieme. Perché? Si sforzò di capire l’origine del suo sollievo. Loro non si sarebbero presi la briga di legare un morto! Ma loro chi? Girò ancora di più la testa, poi si fermò quando un paio di stivali neri entrò nel suo campo visivo.
Eragon alzò la testa e si ritrovò a guardare il muso rincagnato di un Ra’zac. Lo percorse un brivido di terrore. Fece appello alla magia e stava per formulare una parola che avrebbe ucciso i suoi aguzzini, ma poi si interruppe, perplesso. Non riusciva a ricordarla. Deluso, ritentò, ma soltanto per lasciarsela sfuggire ancora.
Torreggiando su di lui, il Ra’zac ghignò gelido. «La droga funziona, a quanto pare. Bene, così non ci darai fassstidio.»
Eragon udì un tintinnio metallico alla sua sinistra. Si voltò e vide con sgomento che il secondo Ra’zac stava infilando una museruola sulla testa di Saphira. La dragonessa aveva le ali legate lungo i fianchi da pesanti catene nere, e alle zampe aveva ceppi robusti. Eragon provò a chiamarla: invano.
«Sssi è messa a collaborare quando abbiamo minacciato di ucciderti» sibilò il Ra’zac. Accovacciato davanti alla lanterna, cominciò a rovistare nelle borse di Eragon, esaminando e scartando parecchi oggetti, finché non trovò Zar’roc. «Ma guarda che bella ssspada ha quesssto marmocchio. Credo che la terrò io.» Si protese verso il prigioniero e ringhiò. «O magari, ssse ti comporti bene, il nossstro padrone potrebbe permetterti di lucidargliela.» Il suo alito umidiccio sapeva di carne in putrefazione.
Rigirò la spada fra le mani e si lasciò sfuggire un grido quando vide il simbolo sul fodero. Il suo compagno accorse. Insieme scrutarono la spada, sibilando, facendo schioccare la lingua. Alla fine si rivolsero a Eragon. «Ssservirai molto bene il nostro padrone.»