Quando la pelle della tunica si aprì, Murtagh lanciò un’imprecazione. La schiena dell’elfa era forte e muscolosa, ma coperta di cicatrici che rendevano la sua pelle simile a uno strato di fango secco percorso da crepe. Era stata frustata senza pietà e marchiata con tenaglie arroventate. Dove la pelle era ancora intatta, era violacea e nera per i colpi ricevuti. Sulla spalla sinistra c’era un tatuaggio fatto con inchiostro indaco. Era lo stesso simbolo inciso sullo zaffiro dell’anello di Brom. Eragon giurò a se stesso che avrebbe ucciso chiunque si fosse reso responsabile di quelle torture.
«Puoi guarirla?» gli chiese Murtagh.
«lo... non lo so» rispose Eragon, e respinse a fatica un improvviso senso di nausea. «Le ferite sono così tante.»
Eragon! intervenne Saphira. È un’elfa. Non puoi permettere che muoia. Stanco o no, affamato o no, devi salvarla. Unirò le mie forze alle tue, ma sarai tu a evocare la magia,
Si.. hai ragione, mormorò, incapace di staccare gli occhi dall’elfa. Determinato, si tolse i guanti e disse a Murtagh: «Ci vorrà del tempo. Puoi procurarmi del cibo? E fai bollire qualche straccio per bendarla; non posso guarire tutte le ferite.»
«Non è il caso di accendere il fuoco, potrebbero vederci» obiettò Murtagh. «Dovrai usare stracci non lavati, e il cibo sarà freddo.» Eragon fece una smorfia, ma annuì. Mentre posava con delicatezza una. mano sulla schiena dell’elfa, Saphira si accovacciò accanto a lui, gli occhi scintillanti fissi sulla fanciulla. Eragon inspirò a fondo, poi richiamò il potere magico e si mise all’opera.
Pronunciò le antiche parole: «WaIse heill!» Sotto il suo palmo la bruciatura tremolò, e su di essa si formò uno strato di nuova pelle. intatta, che si richiuse senza lasciare alcuna cicatrice. Tralasciò lividi e ferite non gravi, perché guarirli tutti. gli avrebbe consumato tutta l’energia necessaria a curare quelli più gravi. Mentre lavorava, si meravigliò che l’elfa fosse ancora viva; era stata sottoposta a ripetute torture che l’avevano portata sull’orlo della morte con una precisione agghiacciante.
Malgrado i suoi sforzi di rispettare l’intimità dell’elfa, Eragon non potè fare a meno di notare che il suo corpo martoriato era bellissimo. Era esausto e non si soffermò a lungo, anche se le sue orecchie si fecero rosse più di una volta. Sperò con tutto il cuore che Saphira non si accorgesse di quello che stava pensando.
Lavorò per tutta la mattina, facendo solo qualche breve pausa per bere e mangiare, allo scopo di recuperare le energie perse con il digiuno, la fuga e ora la guarigione dell’elfa. Saphira rimase al suo fianco, infondendogli più forza possibile. Il sole era alto nel cielo quando finalmente Eragon si alzò, gemendo per i muscoli indolenziti. Le sue mani erano grigie e i suoi occhi asciutti e sabbiosi. Si avvicinò barcollando alle bisacce e bevve un lungo sorso dall’otre del vino. «È finita?» gli chiese Murtagh.
Eragon annuì, tremante. Non aveva la forza di parlare. Il campo gli girava intorno; si sentì quasi svenire. Hai fatto un bel lavoro, lo rincuorò Saphira.
«Ce la farà?» chiese ancora Murtagh.
«Non... non lo so» balbettò Eragon con un filo di voce. «Gli elfi sono forti, ma nemmeno loro possono sopportare una violenza simile senza conseguenze. Se sapessi di più sulla magia guaritrice, potrei rianimarla, ma...» Fece un gesto d’impotenza. La mano gli tremava tanto che versò qualche goccia di vino. Un altro sorso lo aiutò a riprendersi. «Sarà meglio rimetterci in marcia.»
«No! Devi dormire» protestò Murtagh.
«Posso... posso dormire in sella. Non possiamo permetterci di restare qui, non con i soldati così vicini.»
Murtagh si arrese a malincuore. «In questo caso guiderò io Fiammabianca, mentre tu riposi.»
Sellarono i cavalli, legarono l’elfa su Saphira e abbandonarono il campo, Eragon mangiò mentre cavalcava, per recuperare un po’ d’energia; poi si abbandonò sul collo di Fiammabianca e chiuse gli occhi.
43
Acqua dalla sabbia
Quando si fermarono per la notte, Eragon non si sentiva affatto meglio. Anzi: il suo umore era peggiorato. Avevano trascorso gran parte della giornata a compiere tortuose manovre nel tentativo di seminare i soldati, che stavano usando anche i cani per rintracciarli. Smontò da Fiammabianca e chiese a Saphira: Come sta?
Non peggio di prima. Si è mossa qualche volta, nient’altro, Saphira si accucciò a terra per consentirgli di slegare l’elfa, dalla sella. Per un momento le morbide curve della fanciulla premettero contro il corpo di Eragon. Il ragazzo si affrettò a distenderla.
Lui e Murtagh consumarono una cena leggera. Era una fatica immane, combattere il sonno che minacciava di sorprenderli a ogni istante. Finito di mangiare, Murtagh disse: «Non possiamo continuare di questo passo; non abbiamo guadagnato terreno sui soldati. Entro un giorno o due ci raggiungeranno.»
«Che cos’altro possiamo fare?» sbottò Eragon. «Se fossimo solo noi due e tu fossi disposto a lasciare Tornac, Saphira potrebbe trasportarci. Ma con l’elfa? Impossibile.»
Murtagh lo guardò intensamente. «Se vuoi andartene per conto tuo, non te lo impedirò. Non posso aspettarmi che tu e Saphira rischiate di essere catturati.»
«Non m’insultare» borbottò Eragon. «L’unica ragione per cui, sono libero sei tu. Non ho alcuna intenzione di abbandonarti nelle mani dell’Impero. Bel ringraziamento sarebbe!»
Murtagh chinò il capo. «Le tue parole mi confortano.» Fece una pausa. «Ma non risolvono il nostro problema.»
«Che cosa potrebbe farlo?» fece Eragon. Indicò l’elfa. «Vorrei che ci dicesse dove sono gli elfi; forse potremmo cercare asilo da loro.»
«Considerando quanto ci tengono a restare nascosti, dubito che lei ti rivelerebbe dove si trovano. E se anche lo facesse, quelli della sua razza potrebbero non accoglierci a braccia aperte. Gli ultimi Cavalieri con cui hanno avuto contatti sono stati Galbatorix e i Rinnegati. Non credo che ne serbino un bel ricordo. E io non possiedo nemmeno il dubbio onore di essere un Cavaliere come te. No, non credo che mi accetterebbero.»
Sì, invece, disse Saphira in tono sicuro, spostando le ali in una posizione più comoda.
Eragon si strinse nelle spalle. «Anche se fossero disposti a proteggerci, comunque non sappiamo come trovarli, ed è impossibile chiederlo all’elfa finché non riprende i sensi. Dobbiamo fuggire, ma da che parte? Nord, sud, est, ovest?»
Murtagh intrecciò le dita e si premette i pollici contro le tempie. «Credo che l’unica cosa da fare sia lasciare l’Impero. I pochi posti sicuri entro i suoi confini sono molto lontani da qui. Sarebbe difficile raggiungerli senza essere catturati o seguiti. Non c’è nulla per noi a nord, tranne la foresta Du Weldenvarden... dove potremmo nasconderci, ma non mi piace l’idea di ripassare per Gil’ead. A ovest ci sono soltanto l’Impero è il mare. A sud c’è il Surda, dove potresti trovare qualcuno che ti indichi come arrivare ai Varden. Quanto all’est...» Scrollò le spalle. «A est c’è il Deserto di Hadarac fra noi e qualunque terra esista da quella parte. Forse i Varden si trovano lì, ma potremmo impiegare anni a scovarli.»
Però saremmo al sicuro, osservò Saphira. Fintanto che non incontriamo gli Urgali, Eragon aggrottò la fronte, infastidito da un mal di testa che minacciava di offuscargli i pensieri. «È troppo pericoloso andare nel Surda. Dovremmo attraversare la maggior parte dell’Impero, evitando ogni città e villaggio. C’è troppa gente fra noi e il Surda per riuscire a passare inosservati.»
Murtagh inarcò un sopracciglio. «Allora vuoi attraversare il deserto?»
«Non vedo alternative. E poi così potremo lasciare l’Impero prima che arrivino i Ra’zac. Con le loro cavalcature volanti, probabilmente arriveranno a Gìl’ead in un paio di giorni, quindi non ci resta molto tempo.»
«Ma se anche riusciamo ad arrivare al deserto prima di loro» disse Murtagh. «potrebbero comunque raggiungerci. Sarà difficile seminarli.»