Una gocciolina di sudore scivolò lungo il viso di Eragon, ma lui non osò muoversi per asciugarla.
Che cosa devo fare? chiese agitato.
Sorridi, alza la mono, qualunque cosai rispose Saphira in tono sbrigativo.
Eragon cercò di sorridere, ma le sue labbra riuscirono soltanto a fare una smorfia tirata. Prendendo coraggio, alzò una mano e abbozzò un saluto. Quando non accadde nulla, arrossì d’imbarazzo, abbassò il braccio e chinò la testa.
Una solitaria acclamazione interruppe il silenzio. Qualcuno applaudì forte. Per un breve secondo la folla esitò, poi Eragon fu investito da un boato di ovazioni.
«Molto bene» disse l’uomo calvo alle sue spalle. «Ora comincia a camminare.»
Sollevato, Eragon drizzò la schiena e chiese allegramente a Saphira: Andiamo? La dragonessa inarcò il collo e fece , un passo avanti. Mentre sfilavano davanti alla prima fila, lei guardò da un lato e dall’altro, ed esalò uno sbuffo di fumo. La folla si acquietò e indietreggiò, ma solo per riprendere a esultare con più passione.
Che vanitosa, la canzonò Eragon. Saphira agitò la coda e lo ignorò. Mentre avanzavano lungo il sentiero, Eragon scrutava incuriosito la folla acclamante. I nani erano molto più numerosi degli umani, ma molti di loro lo guardavano in tralice. Alcuni valsero perfino le spalle e se ne andarono, scuri in volto.
Gli umani erano gente di tempra dura e fiera. Tutti gli uomini avevano pugnali o coltelli infilati nella cintura; molti erano armati come per la battaglia. Le donne avevano un portamento altero, ma sembravano nascondere una profonda stanchezza. I pochi bambini fissavano Eragon con gli occhi sgranati. Quella gente doveva aver patito grandi sofferenze, e avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di difendersi.
I Varden avevano trovato il nascondiglio perfetto. Le pareti del Farthen Dùr erano troppo alte da superare perfino per un drago, e nessun esercito sarebbe stato capace di irrompere all’interno, ammesso che fosse riuscito a trovare le porte nascoste.
La ali di folla li seguivano da vicino, pur lasciando ampio spazio per il passaggio di Saphira. Il clamore prese ad acquietarsi, anche se l’attenzione di tutti restò concentrata su Eragon. Lui si guardò indietro e vide Murtagh che cavalcava rigido, il volto pallido.
Via via che si avvicinavano alla città-montagna, Eragon vide che il marmo bianco di Tronjheim era lucidissimo e aveva i contorni morbidi, come se fosse stato colato in uno stampo. Le alte pareti erano costellate da innumerevoli finestre rotonde incorniciate da elaborati intarsi. A ogni finestra era appesa una lanterna colorata che proiettava una luce soffusa sulla roccia attorno. Non si vedevano torri né comignoli. Proprio di fronte a loro, due grifoni d’oro alti trenta piedi erano a guardia di un massiccio cancello di legno - incassato di venti iarde nella base di Tronjehim—ombreggiato da grosse capriate che sostenevano un altissimo, ampio arco.
Quando raggiunsero la base di Tronjheim, Saphira si fermò per capire se l’uomo calvo aveva istruzioni per loro. Non avendone ricevute, riprese a camminare verso il cancello. Le pareti erano decorate da sottili pilastri di diaspro color rosso sangue. Gli spazi fra i pilastri ospitavano enormi statue di creature esotiche, catturate per sempre dallo scalpello dello scultore.
Con un gran rimbombo il pesante cancello si aprì davanti a loro, mentre catene nascoste sollevavano lentamente le travi gigantesche. Un corridoio alto quattro piani si allungava dritto verso il centro di Tronjheim. Nei tre livelli più alti si apriva una serie di archi che rivelavano grigi tunnel che curvavano in lontananza. Gruppi di persone erano affacciati agli archi per vedere Eragon e Saphira. Al livello del terreno invece gli archi erano chiusi da porte massicce. Ricchi arazzi erano appesi fra i diversi livelli, ricamati a figure eroiche e tumultuose scene di battaglia.
Un coro di acclamazioni gli risuohò nelle orecchie quando Saphira prese a incedere lungo la navata. Eragon alzò una mano, suscitando un altro ruggito festoso nella folla, anche se molti nani non si unirono alle grida di benvenuto.
Il corridoio era lungo un miglio e terminava davanti a un arco fiancheggiato da colonne di onice nera. Zirconi gialli grandi quando un uomo sormontavano gli scuri pilastri, emanando luminosi raggi dorati nel passaggio. Saphira varcò la soglia, poi si fermò, alzò il collo, ed emise un deliziato mormorio di gola.
Erano sbucati in una sala circolare, del diametro di circa mille piedi, che risaliva restringendosi fino al picco di Tronjheim, un miglio più in alto. Le pareti erano costituite da file di archi, ciascuna per ogni livello della città-montagna, e il pavimento era fatto di lucida corniola, su cui era inciso un martello circondato da dodici stelle d’argento, il simbolo sull’elmetto di Orik.
La sala era il centro di quattro corridoi, compreso quello da cui erano sbucati loro, che dividevano Tronjheim in quattro parti. I corridoi erano identici, tranne quello di fronte a loro. A destra e a sinistra di quel corridoio c’erano alti archi che si aprivano su scale discendenti, identiche. Il soffitto era sormontato da uno zaffiro stellato, roseo come un’alba, di dimensioni straordinarie. La gemma era larga venti iarde e altrettanto spessa. Era stata intagliata a forma di rosa, e così perfetta era stata l’opera che il fiore sembrava quasi vero. Un’ampia cinta di lanterne orlava i bordi dello zaffiro, che proiettava fasci striati di luce rossastra tutto intorno. I raggi lampeggianti della stella all’interno della gemma le conferivano l’aspetto di un gigantesco occhio indagatore.
Eragon rimase a bocca aperta per lo stupore. Nulla lo aveva preparato a tutto questo. Gli sembrava impossibile che Tronjheim fosse stata costruita da esseri mortali. La città-montagna faceva impallidire ogni altra città che avesse visto nell’Impero. Eragon dubitava che Urù’baen potesse mai competere con lo splendore e la magnificenza di quel luogo. Tronjheim era uno straordinario monumento al potere e alla perseveranza dei nani.
L’uomo calvo si mise davanti a Saphira e disse: «Da qui in poi dovrete procedere a piedi.» La sua voce fu accolta da una scarica di fischi. Un nano prese in consegna Tornac e Fiammabianca. Eragon smontò da Saphira, ma rimase al suo fianco, mentre l’uomo calvo li conduceva sul pavimento di corniola verso il corridoio a destra.
Lo seguirono per centinaia di piedi, poi entrarono in un piccolo passaggio. Dopo quattro brusche svolte, arrivarono davanti a una massiccia porta di cedro che il tempo aveva macchiato di nero. L’uomo calvo la aprì con una spinta e fece entrare tutti, tranne le guardie.
52
Ajihad
Eragon si fece avanti in un’elegante biblioteca a due piani, gremita di scaffali di legno di cedro. Una scala a chiocciola di ferro battuto risaliva verso un piccolo ballatoio, arredato con due sedie e un tavolo da lettura. Lungo le pareti e sul soffitto erano appese lanterne bianche per dare la possibilità di leggere in qualsiasi punto della stanza. E pavimento di pietra era coperto da un tappeto ovale, dal disegno intricato. In fondo alla stanza c’era una grande scrivania di noce, e dietro di essa un uomo, in piedi.
La sua pelle riluceva del colore dell’ebano oliato. Il cranio era rasato, ma una corta, curata barba nera gli copriva il mento e il labbro di sopra. Sul volto dai lineamenti decisi spiccavano occhi severi e intelligenti. Le spalle larghe e possenti erano enfatizzate da una lunga veste rossa ricamata con fili d’oro, abbottonata sopra un’elegante camicia viola. Il suo portamento fiero ed eretto emanava un’im mensa autorità,
Quando parlò, la sua voce suonò calda e sicura: «Benvenuti a Tronjheim, Eragon e Saphira. Io sono Ajihad. Venite e mettetevi comodi.»
Eragon si sedette su una poltrona accanto a Murtagh, mentre Saphira si accucciava dietro di loro con aria protettiva. Orik rimase in piedi lì accanto, Ajihad alzò una mano e schioccò due dita. Da dietro la scala a chiocciola uscì un uomo. Era identico all’uomo calvo vicino a lui. Eragon li guardò entrambi con grande sorpresa, e Murtagh si irrigidì. «La vostra confusione è comprensibile. Sono gemelli» disse Ajihad con un breve sorriso. «Vi direi i loro nomi, ma non ne possiedono.»