Già, però erano tre metri durante i quali non avrebbe avuto sotto di sé nient’altro che il vuoto e, ancora più in basso, un sacco di rocce appuntite. Tre metri su un tronco che non era poi larghissimo, che probabilmente era sdrucciolevole e che sicuramente aveva un po’ di neve sopra: tre metri che sarebbero stati duri da percorrere anche se non avesse avuto la caviglia in pessimo stato.
Per un attimo la testa di Tom cominciò a girare, come se un qualche accumulo nascosto di alcool fosse tardivamente arrivato al cervello. Quando il mondo smise di girare, l’uomo avanzò verso il tronco e vi posò il suo piede buono. L’albero non sembrò muoversi, era grande e solido, avrebbe retto il suo peso. Era la sua mente che rendeva l’attraversamento più difficile di quello di una lastra di ghiaccio.
Fece scivolare un po’ più avanti il piede, spazzando via accidentalmente un po’ di neve. Interessante, pensò immediatamente, vedendo le implicazioni della cosa: puoi scivolare sul legno, non camminarci. In questo modo non devi alzare i piedi, e togliere la neve renderà meno insicuro anche il passo successivo. Assestò il peso e mise anche l’altro piede sul tronco in modo da trovarsi messo di fianco.
Rimase immobile per un attimo, verificando l’equilibrio. Poi cominciò a muoversi lungo il tronco. Fece scivolare il piede sinistro per una trentina di centimetri, aspettò fino a che non si sentì ben piantato e poi fece percorrere al piede destro la stessa distanza. Si sentiva sicuro. Certo, entrambi i piedi erano ancora al di sopra di un terreno solido, ma era comunque un inizio. Fece avanzare ancora il sinistro per una trentina di centimetri, poi il destro. Ora il sinistro era proprio in corrispondenza del ciglio.
Più passi farai e più facilmente rischi di cadere.
Tom disse ad alta voce: «Chi ha detto che sei tu a comandarmi?» Spinse il suo piede sinistro in avanti di venti centimetri e richiamò il destro per rimettersi in equilibrio. Ora si trovava ufficialmente a mezz’aria anche se una caduta lo avrebbe riportato sulla terraferma. Non sapeva dove guardare: ovviamente non in basso, ma neppure verso l’alto. La cosa migliore era guardare diritto davanti a sé, nel vuoto sopra la gola. Eh, no, non là. Cazzo, no.
A sinistra, verso dove stai andando.
Girò la testa. Ottima mossa — l’altra sponda non era poi così lontana. Fece avanzare nuovamente il sinistro, poi il destro, e ancora il sinistro, e poi il destro. Ora si trovava quasi al centro del tronco. Scivolò nuovamente in avanti, ma il suo piede colpì un nodo del tronco facendogli scuotere la gamba. Pensò che fosse tutto a posto, ma ben presto si accorse che non era così. La gamba sinistra era a posto, ma il resto del corpo era improvvisamente diventato insicuro. Sentì il torso appesantirsi e sprofondare all’indietro. Ebbe l’impressione che la massa del pianeta sotto di lui lo invitasse a raggiungerla.
A sinistra, guarda a sinistra. Si sentì per un attimo senza peso, ma non stava cadendo. Poi ritrovò se stesso e rimase immobile. Guardò verso restremità del tronco, seminascosta dai cespugli coperti di neve e la fece diventare il centro di tutto ciò che fosse piatto. Continuò a procedere.
Scivolò e avanzò ancora una volta. Aveva superato la metà. Scivolò ancora, ma stavolta con una strana sorta di euforia. Per la maggior parte del tempo si era sentito come il personaggio di un videogame controllato dalla madre di qualcuno a cui è stato permesso di giocare una partita. Ma solo per una volta…
Scivolò e avanzò ancora una volta, e poi un’altra. E non cadde.
Si mosse un’ultima volta e finalmente si ritrovò immobile su una parte del tronco che poggiava sulla terraferma. Rimase lì improvvisamente incapace di scendere. Guardò verso la gola, sentendosi come sospeso nel vuoto, poi poggiò i piedi sul terreno.
Per un attimo la terra stessa sembrò inconsistente, come se potesse ondeggiare, rovesciarsi e svanire. Fece allora un altro passo allontanandosi dalla gola e tutto si sistemò. Ce l’aveva fatta.
Una semplice occhiata lungo l’altra sponda confermò quello che aveva sospettato: sarebbe stato difficile procedere in entrambe le direzioni. Mentre dove si trovava era diventata praticamente una passeggiata.
Tre metri invece di centinaia.
«Grazie,» disse nel silenzio.
La voce non rispose. Sopra di lui il cielo stava diventando grigio.
Camminò per altri dieci minuti, tenendosi sconsideratamente vicino al ciglio. Per un attimo, in quel suo mondo sperduto tra gli alberi, ebbe l’impressione che le cose non andassero poi tanto male. Sembrava che facesse più freddo, incredibilmente, ma riusciva a sopportarlo. Era in grado di fare il suo dovere, era evidente. Era riuscito a camminare per aria. Non fu sorpreso quando scorse il suo zaino più in basso, anche se era quasi completamente ricoperto di neve e sarebbe stato facile non vederlo. Era semplice, la sua buona sorte era tornata, per una volta il mondo si stava prendendo cura di lui. Si aggrappò a un piccolo albero, si sporse e guardò giù. Attorno a esso c’era una serie confusa di tracce nella neve, senza dubbio causate dai suoi piedi e dalle sue mani quando aveva provato a spiccare il volo.
Ma niente orso.
Proseguì, continuando sul ciglio della gola fino a quando non arrivò in un punto da dove poteva discendere. Notò alcuni rami spezzati e, sfruttando il suo sesto senso arboreo appena acquisito, ne dedusse che quello era probabilmente il punto dove era precipitato la notte prima. La seconda discesa andò molto meglio, con l’unica eccezione di una frenetica scivolata verso la fine. Perlomeno stavolta era atterrato sul fondo della gola con i piedi. Sentendosi come se stesse completando una sorta di cerchio ideale, si trascinò verso lo zaino.
Era aperto e all’interno luccicava il vetro. Accanto c’era una bottiglia vuota; c’erano anche alcune confezioni malridotte e una manciata di pillole, diventate di un blu innaturale. Il tutto era racchiuso in una sorta di nido, uno spiazzo sgombro con la parete di roccia alle spalle e il corso d’acqua di fronte, chiuso da cespugli su ambo i lati. Tom si fermò a guardare tutto ciò sentendosi come un fantasma.
All’improvviso gli si riempì la bocca di saliva e il suo stomaco si contrasse.
Fece un passo affrettato all’indietro, temendo che l’eccessiva vicinanza con lo zaino lo riportasse nel buio della notte e poi cadde seduto a terra, con l’effetto dell’impatto che risaliva lungo la schiena e i cespugli che oscillavano e tremolavano davanti ai suoi occhi.
Dopo aver respirato profondamente per alcuni minuti il dolore diminuì un po’. Potevano essere i postumi della sbornia, oppure la vista delle pillole aveva prodotto una reazione del tipo «Non provarci di nuovo» che, partita dal cervello, era arrivata allo stomaco. Ma in realtà poteva essere semplicemente un violento attacco di fame. Non era facile a dirsi, il suo corpo era diventato una sorta di Torre di Babele. Sembrava che tutto ciò che si trovava al di sotto della sua gola fosse stato rimpiazzato dal tratto intestinale — funzionante, ma incompatibile — di una specie aliena: gli trasmetteva dei messaggi, e anche ad alta voce, ma lui non sapeva interpretarli.
Si sentiva uno schifo.
Si piegò involontariamente in avanti. Ora stava anche tremando, e molto. Con un brivido di autentica paura Tom si accorse di essere a pezzi, ferito da qualche parte nel profondo. Guardò il cielo e vide che era diventato ancora più scuro, di un grigio piombo a chiazze. Sembrava dovesse riprendere a nevicare, e questa volta seriamente.