«Bene,» disse. «Allora ci adatteremo.»
Ora il vento si stava alzando e la neve turbinava intorno al suo volto.
Capitolo ventotto
Patrice non aveva mai sentito tanto freddo in tutta la sua vita. L’uomo le aveva permesso di infilarsi il giaccone, prima di uscire di casa e per la gran parte del viaggio aveva rimpianto di averlo fatto. Quando si è in movimento, un giaccone non è di nessuna utilità: sono soprattutto le parti che non copre, il viso e le mani — in particolare poi se sono legate dietro la schiena — che gelano. In un caso del genere un indumento simile fa solo sudare. Ma nel corso delle due ore che erano rimasti seduti lì in attesa, la donna aveva ringraziato il cielo di averlo addosso. Senza di esso, sapeva che probabilmente sarebbe morta. Le era colato un po’ il naso e il muco liquido si era gelato formando piccoli ghiaccioli. Patrice aveva chiesto all’uomo che le legasse le mani sul davanti, così da poterle scaldare, ma lui si era rifiutato. La donna sapeva il perché: le braccia e le spalle stavano cominciando a farle terribilmente male, e quello era solo l’inizio di un calvario che lei avrebbe dovuto subire se lui non avesse ottenuto quello che voleva.
La neve cominciò a scendere poco dopo le quattro. La luce aveva cominciato ad affievolirsi, e se alcuni flocchi scintillavano ancora nella caduta, altri assomigliavano già a piccole ombre fluttuanti. La donna sapeva che alcuni abitanti locali consideravano la neve come un fardello, ma per lei era diverso. Anche dopo tre anni continuava a sembrarle un tocco di magia. A volte la rendeva triste, le faceva venire in mente Bill e i figli quando erano molto più giovani; ma nessuno ha mai detto che la magia deve per forza essere lieta.
L’uomo l’aveva fatta sedere in prossimità della ripida parete della gola, il che era già qualcosa. Almeno il vento proveniva solo da un’unica direzione. Henrickson invece si era seduto sull’argine opposto del ruscello, con il fucile in grembo, nel più totale silenzio. Se aveva freddo non c’era nessun segno esteriore che lo indicava.
La neve cadeva ormai da venti minuti, quando Patrice vide l’uomo alzare improvvisamente lo sguardo e rimanere in ascolto per un attimo. «Ha sentito qualcosa?» «In lontananza,» rispose.
«Lo sa? Non ho la minima idea di cosa stia parlando. Tom ha visto un orso, tutto qui. L’ho portata fin qui perché lei è un uomo terribile e penso che la cosa migliore sia farla morire di freddo in un posto dove non la troveranno mai.»
«Può darsi,» disse. «Lo vedo che ci sta provando.» Poi sorrise. «Lei mi piace, mi ricorda qualcuno.»
«Sua madre?»
«No, non lei,» rispose.
«È ancora viva?»
Lui non disse nulla, e Patrice capì immediatamente e con sicurezza che la madre di quest’uomo era morta, non sepolta in un posto convenzionale e che lui sapeva dove si trovavano quelle ossa.
«È figlio unico?»
La testa di Henrickson si voltò verso di lei.
Lei scrollò le spalle. «Sto esercitando un po’ la bocca solo per evitare che mi si congeli il viso.» Il che era vero. Negli anni di insegnamento aveva anche imparato che in qualche raro caso riuscivi a entrare in confidenza con alcuni bambini, parlando con loro in continuazione. Quest’uomo non era un bambino, lo sapeva, era uno psicopatico, ma magari avrebbe funzionato lo stesso. «Ehi, forse così ci sentiranno e verranno a vedere di cosa stiamo parlando — allora, era figlio unico o no?»
«Lo sono diventato,» rispose senza mostrare emozioni. «Ho avuto tre madri, tutte morte ormai, ed è questo che mi ha dato la forza. Sono nato in una foresta, mio padre uccise mia madre e poi alcune persone vennero a uccidere lui. Mi tennero per un po’, assieme a mio fratello, e poi si liberarono di me. Hanno provato a sistemarmi in vari posti, ma io non volevo. Fino a quando non sono venuto a vivere non lontano da qui con la mia ultima madre.»
«La trattava male?»
«Patrice, sono così lontano dalla psicologia spicciola che lei non se lo immagina nemmeno.»
«Allora, chi le ricordo?»
«La donna che per un certo periodo fu mia nonna.»
Patrice pensò che fosse una sorta di complimento, per quel che poteva valere. «Perché vuole fare tutto questo?»
«Uccidere è quello che fanno gli animali. I carnivori uccidono per mangiare. I cani selvaggi uccidono i cuccioli degli altri cani. Le mosche depositano le uova nel corpo di animali morenti. Non si fanno problemi e così dovremmo essere noi. I mercanti arabi di schiavi a Zanzibar buttavano nelle acque della baia gli uomini e le donne malati, per non pagare tasse su beni che non potevano vendere. In Siberia, i contadini russi vendevano pezzi di carne umana durante i rigidi inverni degli anni ’20. Noi siamo gli animali che hanno inventato delle macchine volanti per poi mandarle a schiantare contro edifici pieni di nostri simili. Gli esseri umani sono animali che uccidono e distruggono.»
«Mi farebbe piacere immaginare che lei reputa negative queste cose.»
«Non sono né buone né cattive. È la semplice realtà. Il fucile è solo un mezzo che uccide. È una delle macchine inventate da noi. La nostra specie si è diffusa in Europa dove altri esseri avevano vissuto centinaia di migliaia di anni e nel giro di pochi millenni quelle terre sono diventate nostre. Come pensa sia accaduto?»
«Eravamo più adatti.»
«Solo da un unico punto di vista. Il nostro vantaggio fu la volontà di uccidere le altre creature. Uccidemmo gli Uomini di Neanderthal fino a farli estinguere e poi cominciammo ad ammazzarci tra di noi. Non abbiamo rispetto per animali come iene e avvoltoi — per i saprofagi —, ma magnifichiamo i leoni, le tigri, gli squali — animali con le bocche che grondano di sangue fresco. Il fatto che abbiamo la parola, il linguaggio, mani dotate di pollici e le illusioni di una nobiltà spirituale non fa alcuna differenza. Male e bene non esistono. C’è solo il comportamento, e il nostro è questo.»
«Allora uccida qualcuno. L’ha già fatto prima, vero?»
Non rispose, il che, in un certo senso, era peggio. Pietrificata dal gelo, Patrice si sentì venire la pelle d’oca. Si rendeva conto di essere in balia di una persona che non comprendeva le cose come gli altri. «Dunque, andiamo a uccidere qualche altro essere umano, tanto siamo miliardi. Perché non ucciderne ancora un po’?»
«Perché è giunto il momento per questo.»
«È quello che dicono le voci, vero?»
«Nessuno l’ha più fatto da molte generazioni. Hanno ucciso altre cose: simboli del potere, donne, bambini. Non sono altro che surrogati dell’uomo selvaggio, del vero sacrificio.»
«Dio del cielo, e perché questo dovrebbe funzionare?»
«Perché è così.»
«Si uccide qualcuno e questo fa ritornare l’armonia delle sfere? Ci crede davvero?»
«È la verità, se lei fosse nata qualche centinaio di anni fa lo saprebbe. Oggi noi crediamo nella corretta igiene dentale. Crediamo che sia importante scegliere la compagnia telefonica giusta. Cerchiamo di non camminare più sul ciglio dei precipizi.»
«Lei è pazzo,» disse la donna.
«Non credo.» Il suo sguardo risaltava nell’oscurità incombente. «E la sua opinione non mi interessa.»
«Allora non mi dica altro. Non voglio ascoltarla.»
«Bene, ma questo deve saperlo. Si ricorda quella nonna di cui le ho parlato?»
Patrice deglutì.
«L’ho uccisa io. La spinsi giù dalle scale quando avevo dodici anni. So che era ciò che desiderava. Morì sul colpo. Se i suoi amici non arrivano presto, morirà anche lei, ma molto lentamente.»
Senza nemmeno rendersene conto Patrice era riuscita a strisciare un metro più lontano dall’uomo. Ma era comunque ancora troppo vicina. Negli ultimi due anni le era capitato di pensare che si sentiva pronta per la Morte. Non le andava di fare il suo gioco, ma senza Bill non c’era granché a trattenerla e forse era giunto il momento di compiere quel passo. Raggomitolata sotto la neve in compagnia di una persona che sembrava al tempo stesso qualcosa di più e qualcosa di meno di un essere umano, sapeva che non sarebbe stata la scelta giusta. Morire non era né un atto eroico né significativo. Ti rendeva cadavere e basta. Lei non voleva aggiungersi a quella schiera silenziosa.